Dottor Lucchina, lo scandalo recente della clinica Santa Rita di Milano ha riaperto per l’ennesima volta il dibattito sul rapporto tra pubblico e privato nel mondo sanitario.
Farei subito una premessa riguardante i numeri del privato, per evitare di parlare sulla base di semplici suggestioni. È vero che la Lombardia è la regione che ha formalizzato la parità di diritti e di doveri tra pubblico e privato. Detto questo il privato in Lombardia si è consolidato su una quota di servizio – e nel privato metto case di cura private, istituti religiosi, non profit – che copre il 30% delle prestazioni sanitarie. Il 70% invece è pubblico. Il privato in Lombardia è complementare alla struttura pubblica, non è certamente il protagonista di tutta la sanità. Parrebbe invece, a livello di slogan, che la Lombardia “ha venduto la sanità al privato”. I dati e la realtà non dicono questo. In Lombardia la parte pubblica è ampiamente maggioritaria. Direi che il privato è complementare, ma non ha in mano la sanità.
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Sotto accusa, però, è finito il sistema di controllo regionale.
Quando si fanno le regole di un sistema regionale, queste intervengono su tutto il sistema. Non c’è una regola per il privato e una per il pubblico. Non sarebbe corretto oltre che giuridicamente possibile nel sistema lombardo. Come ha detto Formigoni nella sua intervista al Corriere di ieri, siamo un sistema oggettivamente avanzato anche nei controlli. Quando la sanità regionale controlla il 6,2% delle cartelle di ricovero, il criterio di controllo di questo 6% risponde a requisiti di screening ben precisi: queste cartelle vengono prese in base a parametri che comprendono una potenziale inappropriatezza, per esempio andando a vedere i casi di ricoveri ripetuti, andando a verificare le prestazioni di ricovero che invece dovrebbero essere in day hospital, verificando parametri che la statistica sanitaria, l’epidemiologia sanitaria e vari studi organizzativi danno per scontati. Quindi quando si parla di una percentuale di controllo del 6%, si può ragionevolmente sostenere che buona parte delle prestazioni inappropriate sono controllate. Aggiungo che da questo punto di vista il sistema Usa – che di solito viene preso come termine di paragone – identifica nel 5% la percentuale di comportamenti a rischio di appropriatezza rispetto alle prestazioni. Questo vuol dire che il dato regionale soddisfa pienamente anche sistemi che la comunità scientifica considera avanzati.
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Secondo svariati studi internazionali il nostro sistema sanitario risulta essere uno dei migliori del mondo: come mai invece nell’opinione pubblica prevale la sfiducia nei confronti della sanità italiana?
In realtà noi abbiamo rilevazioni di customer satisfaction che sono molto buone. Bisogna però tener presente che la sanità è un ambito molto delicato e, direi quasi, “per definizione” in deficit rispetto alle esigenze che deve soddisfare. Quando una persona non sta bene e ritiene di aver bisogno di una prestazione sanitaria, si scopre al centro del mondo e non ha la pazienza di attendere. Non ha la pazienza di convincersi, quando il medico le fa la prestazione, che questa prestazione non è propriamente urgente, e quindi tende naturalmente ad esasperare tutte le situazioni organizzative. Da qui al dire che tutte le persone non siano soddisfatte della sanità, questo non è vero, perché i dati di soddisfazione delle prestazioni sanitarie sono oggettivamente buone.
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Fino a che punto l’assessorato regionale alla sanità può effettivamente monitorare l’attività dei singoli professionisti medici? È giunto il momento di rivedere e ripensare alcune procedure, come ad esempio la libera professione dei medici in intramoenia?
L’assessorato ha in mano tutti i dati epidemiologici di tutte le prestazioni sanitarie di tutta la Lombardia. Li elabora e stabilisce dei valori di riferimento e dei parametri, di natura regionale, rispetto ai quali, ad esempio, tutte le Asl possono determinare eventuali anomalie. Così, se ho un parametro di ricoveri ripetuti che non può che essere del 2‰, allora la struttura che ha uno standard di ricoveri ripetuti del 4‰ è una struttura che va verificata. È quello che facciamo. Sul comportamento singolo del medico, invece, è impossibile intervenire, perché l’assessorato dovrebbe controllare un volume di 9 milioni e mezzo di abitanti residenti. Qui tocchiamo l’aspetto deontologico dell’onestà professionale del medico. Confesso che è abbastanza difficile arrivarci.
Inutile quindi invocare sistemi di controllo perfetti.
Il sistema di controllo perfetto non esiste in nessuna attività e in nessun campo. Le faccio un altro esempio: le società quotate in borsa dovrebbero avere dei sistemi di controllo perfetti perché sono certificate da società specializzate. Ma il sistema di controllo perfetto è un’utopia. Questo non significa che il sistema non possa perfezionarsi continuamente.
Cosa si può fare, in concreto, per perfezionare il sistema?
Per la parte relativa alla decisione del medico di appropriatezza di un intervento o di una cura, da più parti è oggetto di riflessione l’ipotesi di affiancare professionisti terzi che possano supportare le Asl o l’assessorato. Questa, come ricordava Formigoni, è una possibilità sulla quale riflettere. Sarebbe un avanzamento anche rispetto ai più moderni sistemi europei.
In altri paesi ci sono elementi di governance che potrebbero essere adottati per migliorare il nostro sistema sanitario?
Quello della valutazione terza, in atto negli Usa. Non ci sono molte amministrazioni al mondo che contemplano l’azione di un pool di specialisti, completamente esterni, pronti a supportare le varie fasi di valutazione di una prestazione sanitaria. Negli Usa c’è Joint Commission, un’agenzia certificata, completa, che valuta dagli accreditamenti ai modelli organizzativi.
Spesso si sente dire che il problema della sanità italiana è la mancanza di adeguate risorse economiche dedicate al servizio sanitario nazionale: è così? Il federalismo fiscale di cui si parla in questi mesi potrebbe essere una soluzione in questo senso?
Le risorse economiche in sanità si sostiene che non sono mai sufficienti. Da un certo punto di vista è vero, perché il bisogno sanitario percepito dalle persone non dico che possa essere infinito, ma è sempre sulla soglia dell’insoddisfazione. Ho mal di stomaco e ho bisogno di una gastroscopia? Va fatta subito. Mi dicono che la posso fare solo tra una settimana? Allora la sanità non funziona. Bisognerebbe però aprire una riflessione – ma è uno scenario ulteriore – su che tipo di bisogno sanitario si debba soddisfare.
Che cosa intende dire? La sanità dovrebbe poter soddisfare il bisogno di tutti.
Oggi siamo in un sistema universalistico di assistenza, cioè tutti i cittadini vanno assistiti, indipendentemente dal ceto, dal reddito, e via dicendo. Vero. Ma che da qui si passi a dire che il sistema deve garantire “tutto a tutti” è probabilmente da discutere. Altrimenti le risorse non basterebbero mai. Come d’altra parte va valutato se il fatto che ognuno di noi contribuisca con le proprie tasse al funzionamento dei servizi pubblici statali o regionali debba considerarsi esaustivo o se non ci debbano essere ulteriori compartecipazioni specifiche all’interno di ogni prestazione, per intenderci il ticket sui farmaci o su altre prestazioni specialistiche, perché anche questo contribuirebbe ad un approccio più razionale. Le statistiche ogni anno dicono che il cittadino butta via ogni anno una quantità enorme di farmaci prescritti. Sono elementi che sul conto delle risorse nazionali hanno il loro peso.
In Inghilterra, recentemente, il sistema sanitario inglese ha deciso che non garantirà più l’accesso a cure gratuite a chi adotta stili di vita non salutari, come il fumo o l’obesità: qual è la sua opinione in proposito?
È una decisione che si presta a molte e giuste critiche. Con la nostra Costituzione questo non è possibile. Però contiene implicitamente un aspetto di prevenzione, applicato agli stili di vita, che dovrebbe essere tenuto nella massima considerazione. E alcune norme che tengano nel dovuto conto certi stili di vita possiamo benissimo immaginarle anche in Italia. Ci sono certe patologie, dovute per esempio al fumo, con conseguenze di ipertensione etc. sulle quali bisogna domandarsi dove inizia davvero la fase cronica. Norme “restrittive” in modo ragionato potrebbero senz’altro essere di stimolo ad una maggiore attenzione al proprio stile di vita.
Quali sono, secondo lei, le principali criticità da affrontare nel prossimo futuro per garantire la sostenibilità e l’erogazione di servizi di qualità del nostro sistema sanitario?
Sulle criticità, dobbiamo fare attenzione al pre– e al post acuto. Mentre riusciamo a governare molto bene la fase acuta, sulla fase pre–, che è la prevenzione, dobbiamo lavorare molto di più. Non sono solo gli stili di vita, sono anche gli screening per esempio. Implementare questo lavoro vuol dire intervenire dove la patologia, essendo nelle sue fasi iniziali, ha una possibilità di soluzione molto elevata. Ma dobbiamo lavorare molto anche sul post acuto, perché all’invecchiamento della popolazione va di pari passo un aspetto legato all’assistenza territoriale che sta assumendo dimensioni sempre più rilevanti.
Qual è la prima considerazione che si sente di fare sul caso Santa Rita?
Il risultato di tutte le politiche che si possono mettere in campo dipende, in ultima istanza, dalla volontà, dalla determinazione e dallo spirito di sacrificio degli operatori sanitari: medici, infermieri, tecnici. Il caso Santa Rita porta all’attenzione il lato deontologico, che non riguarda solo il privato, ma è trasversale a tutte le strutture accreditate. Su questo, come ha rilevato il presidente Formigoni, penso che si debba aprire una riflessione importante, perché se si mina l’aspetto deontologico si va ad attaccare la fiducia medico-paziente e se si incrina questa fiducia il pericolo per la sanità è mortale.