Il No della Repubblica d’Irlanda alla ratifica del Trattato di Lisbona viene vissuto come una sorta di tradimento del progetto di unificazione europea, di cui la terra di San Patrizio era considerata negli ultimi anni quasi una paladina, in contrasto con il tradizionale, prudente distacco britannico. Poiché sull’approvazione del Trattato si è scommessa gran parte delle speranze europeiste – dopo l’ancor bruciante ripudio franco-olandese della costituzione giscardiana – il rifiuto (“a resounding no” titolava l’“Herald”) di una nazione in rapida ascesa economica – secondo molti osservatori proprio perché sostenuta dall’Unione Europea – a fronte di un secolare passato di arretratezze (si pensi alla “Great Famine” che nell’Ottocento fece migrare più di un milione e mezzo di irishmen negli Usa), è letto come la drammatica conferma dell’utopia europeista, quasi si fosse tornati ai tempi del fallimento della Comunità Europea di Difesa (CED) inutilmente sostenuta da Alcide De Gasperi.



Quando Barbara Spinelli su La Stampa contesta la tesi di Marcello Pera circa l’imbarbarimento secolarizzante che avrebbe prodotto il vuoto d’identità europeo negando le radici cristiane – tirando in ballo implicitamente la tesi di Gad Lerner sul meticciato quale destino finale dell’Occidente (“Io sono un bastardo”) -, in realtà mi pare non tenga in conto di tutti i termini della questione, e cioè che tale diniego vada letto soprattutto alla luce della storia irlandese del Novecento.
Una vicenda in cui effettivamente l’elemento fondante non è stata la religione in quanto tale – che pure è stata usata “politicamente” per affermare la differenza identitaria tra Eire cattolica e Gran Bretagna protestante -, ma il nazionalismo, che pesca la propria ispirazione nella reazione alla secolare subordinazione di stampo colonialistico dettata da Londra sin dai tempi di Cromwell.
Ancora negli anni Settanta, lo slogan principale della comunità cattolica nordirlandese filorepubblicana – quella, per capirci, massacrata nella “Bloody Sunday” del ‘72 dai brit-parà – non era l’antiprotestantesimo in quanto tale, ma il percepirsi trattata dai governanti britannici di Belfast come una “second class citizenship”. Sin dall’indipendenza raggiunta nel 1921, lo scopo di Dublino è sempre stato quello di emanciparsi dagli UK che hanno continuato a mantenere un presidio nell’isola attraverso l’Irlanda del Nord (in effetti, in ragione di una maggioranza protestante ivi presente leale alla Corona). Una politica di autoidentificazione che negli anni Novanta ha spinto i governanti irlandesi a scommettere sull’Europa anche per differenziarsi dalla linea, almeno in parte, antieuropeista dei governi di Westminster, Margareth Thatcher in testa.

Il superamento di questa posizione potrebbe essere letto, come fa la Spinelli, quasi come una sorta di revanscismo nazionalista, una chiusura psicologica collettiva in cui più che le questioni morali pesa “l’illusione che gli Stati-nazione possano farcela da soli”. E soprattutto, aggiungiamo allora, si tratterebbe della fine dell’illusione irlandese che il proprio ruolo nell’Unione avrebbe garantito maggiore autonomia da Londra e, nel contempo, la crescita complessiva del paese.
Così però si resta, a mio avviso, ancora ad un livello superficiale: come scrive Mario Mauro su ilsussidiario.net, il Trattato «avrebbe potuto accrescere la democraticità dell’Unione», ma proprio tale prospettiva deve aver frenato l’entusiasmo di un popolo la cui costituzione ancora oggi presenta i maggiori elementi confessionali di tutti gli statuti nazionali continentali e in cui, ad esempio, il cattolicesimo è alla base di una politica di incremento demografico nel Nord in netta controtendenza con la minoranza protestante che ammette, a livello religioso, divorzio e contraccezione .
Se quindi i cattolici di Belfast paiono più ossequiosi di quelli italiani delle direttive della Chiesa in tema di morale sessuale e famiglia – va detto, anche per ragioni politiche (sovrastare numericamente i protestanti in Ulster) – il popolo della Repubblica d’Irlanda, per chi lo osserva dal di dentro, tiene ancora molto in conto la visione della Chiesa sulla società, al di là di qualsiasi fariseismo che gli si potrebbe, in parte anche a diritto, attribuirgli (ad esempio, c’è il divieto di vendere bevande alcoliche di Venerdì Santo e il St. Patrik’s Day è molto più che una festa religiosa).



Il Trattato mette sul campo la condivisione obbligatoria di valori e indicazioni morali che il progetto istituzionale europeo presenta, allo stato attuale, in termini sostanzialmente tecnocratici ed eticamente relativi. Proprio la preoccupazione che l’eventuale adesione al Trattato prospettava, di non dover più fronteggiare la sola Gran Bretagna (dove, è qui bene ricordarlo, si è recentemente approvata una legislazione bioeticamente favorevole alle chimere da laboratorio) – ma l’Unione Europea tutta in una liberalizzazione etica sempre più contrastante con le linee morali del cattolicesimo, e la conseguente necessità di conformarsi ad essa, deve aver costituito un reale deterrente a tale adesione per il popolo dell’Eire.
Ha ragione Giulio Tremonti quando su Il Corriere della Sera parla di segnale irrazionale, nel senso però che esso non è rubricabile nella pura logica di sviluppo dei mercati internazionali. Meglio si potrebbe dire un comportamento istintivo, di una comunità che avverte, tra l’altro, nella obbligatorietà delle direttive sopranazionali dell’Unione il rischio del predominio di una linea positivistica e secolarizzante contraria ai propri valori costitutivi, se vogliamo, tradizionali.
Nessuno può oggi mettere in dubbio che i maggiori progressi del cammino europeistico appartengano a pieno merito alla visione di statisti cattolici come De Gasperi, Schumann e Adenauer, dove al baratro del suicidio europeo della seconda guerra mondiale si oppose una nuova linea morale quale unico baluardo alla spartizione strategica del Continente tra l’area di influenza ideologica del pragmatismo statunitense e quella del comunismo sovietico. E non pare quindi un semplice caso, come afferma Pera, che l’ateismo – o per lo meno il relativismo morale – stia minando in Europa la condivisione delle ragioni di un superamento dei confini dello Stato-nazione. Ciò, in ultima analisi, si sposa bene con la lettura che fa Baumann sulla attuale resistenza delle appartenenze locali ai processi di globalizzazione, che spaventano, producendo la cosiddetta “glocalizzazione”, una lettura evocata anche da Franco Venturini su Il Corriere della Sera.

Dalla fine della Guerra dei Trent’anni, ancora alla metà del Seicento, la religione ha smesso di costituire l’elemento fondamentale distinguente delle istituzioni nazionali nelle loro relazioni reciproche, ciò però non significa che il quadro morale cristiano su cui si è edificata culturalmente l’Europa abbia terminato di orientare le coscienze e le culture dei suoi popoli, come affermava anche l’ateo Benedetto Croce per l’Italia («non possiamo non dirci cristiani»). Non è un caso che, nella loro politica interna, i regimi nazifascisti si siano dedicati profondamente a sostituire il senso religioso popolare con l’imposizione di una astratta mistica della nazione, esso semmai è la riprova di come tale sentimento fosse forte e venisse avvertito come una grande minaccia da questi autoritarismi. Tale operazione di spoliazione, culturale ed esperienziale, non riuscì ad essi, come non sarebbe riuscita più avanti nemmeno allo stalinismo. È il medesimo senso religioso occidentale che oggi pare resistere anche al più subdolo attacco portato dalla cultura neopositivistica figlia dell’Illuminismo, soprattutto dal Sessantotto in avanti.
È per questo che l’aver trascurato l’elemento confessionale rappresenta perlomeno una tra le maggiori pietre d’inciampo allo sviluppo dell’Unione, e il caso irlandese costituisce un chiaro indicatore di tale difficoltà.

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