Il fenomeno migratorio rappresenta uno degli elementi della modernità che rendono più emblematicamente ambivalente il rapporto tra flussi globali e culture dei luoghi. Come già per la globalizzazione di merci e informazioni, quella relativa alle persone, nella loro dimensione della vita nuda, è un flusso capace di generare rischi ed opportunità a seconda di come impatta sui territori e sulle relative lunghe derive identitarie. L’immigrazione come fenomeno epocale si affronta solo con più Stato, più mercato e molta più comunità.



Credo si possano distinguere diverse fasi significative nella breve storia dell’immigrazione straniera nel nostro Paese.

A) Fase nascente. Ancora all’inizio degli anni ’70 l’Italia continuava a costituire il primo esportatore di manodopera d’Europa: 152.000 erano gli italiani che nel 1970 avevano preso la via dell’esodo a fronte di 144.000 stranieri che risiedevano in Italia. A 35 anni di distanza le cose sono cambiate non poco, dato che l’ultimo Dossier Caritas stima in poco oltre 3 milioni gli stranieri regolarmente soggiornanti. A fronte di un così vasto fenomeno, un primo tentativo di riconoscere e di gettare le basi per la regolazione del fenomeno fu compiuto nel 1990 dalla prima, ed unica, Conferenza Nazionale sull’Immigrazione voluta dall’allora Ministro Martelli.



B) Fase della sindrome da invasione. Quando i flussi cominciarono a farsi moltitudine l’emergenza sociale precipitò dentro la bolla calda della politica, mediata dalla società dello spettacolo. A volte sospinta dal rancore dal basso della guerra civile molecolare dei ghetti metropolitani, a volte per tragedie che durano lo spazio di un telegiornale che dava notizia dell’inabissamento di una carretta del mare. E’ nel contesto di questa sindrome da invasione che si sono succedute per oltre un decennio le diverse leggi di regolarizzazione, dalla Turco-Napolitano, che delineava diritti e percorsi di inclusione sino alla soglia del diritto di voto, alla legge Bossi-Fini, urlata sul piano della repressione, ma che di fatto realizzava la più grande sanatoria mai avvenuta nel nostro Paese.



C) Fase della metabolizzazione. Mentre sul piano mediatico si giocava sulle paure, nelle tante realtà produttive del Paese si realizzava un primo grande sforzo di metabolizzazione del fenomeno migratorio. Sforzo che è da inquadrare nel particolare modello di capitalismo di territorio del nostro Paese, che, a differenza di quello francese, anglosassone o renano, non è strutturalmente imperniato sull’egemonia delle metropoli, ma si caratterizza per un tessuto produttivo diffuso, quello delle “cento città” e dei duecento distretti produttivi. Per questo motivo il flusso dei migranti, giunto sul territorio italiano, si è disperso in mille rivoli, inseguendo le opportunità che i tanti sistemi produttivi offrivano e offrono a questo segmento della composizione sociale, evitando, in questo modo, quelle pericolose concentrazioni metropolitane che hanno infiammato le banlieues parigine.

D) Dalla metabolizzazione alla cittadinanza. Ogni anno si inseriscono nel mondo del lavoro quasi 175 mila immigrati stranieri. Nel 2005 730 mila erano gli stranieri assunti nelle imprese italiane, mentre 131 mila erano i cittadini stranieri titolari di impresa impegnati nell’edilizia, nel commercio e nella collaborazione famigliare. Numeri che ci dicono che una prima macrofase migratoria si è retta fondamentalmente sul patto “giuslavorista”, nel quale si sono scambiati diritto di soggiorno con domanda di lavoro pluri-localizzata nelle diverse aree del Paese. La progressiva stabilizzazione del fenomeno migratorio, non tanto in termini quantitativi, ma piuttosto in termini di crescente radicamento dei soggetti e delle famiglie nelle comunità locali, rende oggi insufficiente quel patto, evidenziando piuttosto la necessità di muovere lo sguardo verso i temi della cittadinanza in termini di diritti civili, sociali e politici, così da portare ad una sua riformulazione in termini ben più complessi e moderni.

I motivi che hanno portato milioni di stranieri a spostarsi verso il ricco Occidente rimandano a quella diaspora che, mutuando dall’antropologo Appadurai, assume oggi diverse forme. La diaspora del terrore è quella che ormai ci accompagna quotidianamente, con le gesta dei terroristi iracheni, ma anche con la stessa logica della guerra preventiva che ne ha scatenato i comportamenti.

La diaspora della disperazione è invece quella che accompagna tutte le dinamiche che si propongono all’insegna dell’incertezza e del rischio: la competizione globale che riguarda ormai anche Paesi prima classificati come “arretrati” e che ora si trovano sul discrimine fra tradizione di indigenza e sviluppo (Cina e India ad esempio); oppure le migrazioni come pratiche che, condotte in forma individuale o collettiva, denunciano tutta l’incertezza che comporta l’approdo entro nuovi contesti economici, culturali, di vita concreta. Infine, la diaspora della speranza, quella segnalata dai tanti soggetti che operano per l’avvento di nuove forme di convivenza.

Affinché la diaspora della speranza si imponga sulle dimensioni della disperazione e della paura occorre lavorare su due diversi fronti. L’indifferenza cinica del mercato e dei consumi ci dice che l’immigrato è una risorsa. La passione calda del volontariato ci segnala che al pieno dentro le mura delle imprese corrisponde il vuoto sociale sul piano delle politiche abitative di inclusione e integrazione.

Ben venga il diritto al voto alle amministrative, e nel medio periodo anche quello politico, insieme ad una altrettanto sacrosanta innovazione sociale dentro cui le banche si pongono il problema dei mutui per gli immigrati; si facciano progetti di project financing locali per case che risolvono il problema dell’abitare e in questo le risorse delle fondazioni bancarie forse potrebbero dare una grande mano, visto che non sono tempi di piano casa Fanfani. E che dire della scuola, la frontiera vera di incontro tra stili di vita e religioni. Senza un’innovazione sociale che scavi nella lunga deriva di una società multietnica ho l’impressione che il solo schierarsi sulle questioni poste dalla politica non risolve il problema.