La deriva della politically corectness britannica arriva persino a generare forme odiose di discriminazione nei confronti dei cristiani.

È accaduto ad una donna, – che chiamerò Ms. Brown –, da tempo impegnata nell’attività di affidamento di minori. Per dieci anni si è presa cura di un’ottantina di ragazzi.



La donna ha dichiarato di non aver mai considerato quell’attività come un semplice lavoro ma come una vera e propria «vocation», e di amare profondamente quell’atto di attenzione nei confronti di adolescenti difficili. Aveva addirittura affittato, per quella sua vocazione, una fattoria con un pony che utilizzava per l’ippoterapia in favore di ragazzi disabili.



Tutto perfetto, tranne il fatto che Ms. Brown fosse anche una cristiana praticante.

I guai, infatti, cominciano quando le viene affidata una ragazza sedicenne – a cui diamo il nome di Miryam – sottratta alla famiglia d’origine musulmana. L’adolescente, dotata di un particolare grado di sensibilità ed intelligenza, aveva deciso di non vestire secondo le tradizioni islamiche e di non mangiare halal, ovvero seguendo i precetti coranici.

Quello che Ms. Brown non può prevedere è che l’irrequieta ragazza decida di convertirsi al cristianesimo proprio durante il periodo di affidamento.



Quando Miryam chiede, infatti, di farsi battezzare, le autorità comunali competenti sulla vigilanza dell’affidamento contestano alla donna di aver violato i propri doveri di affidataria, tra cui quello di «preservare la fede religiosa della ragazza» e di «usare la propria influenza per impedire il battesimo».

Gravissime le conseguenze.

Ad aprile dello scorso anno le autorità dispongono che alla ragazza venga interdetta la possibilità di frequentare la chiesa per sei mesi, affinché possa riconsiderare «in maniera più saggia» la denegata ipotesi di diventare cristiana. A Ms. Brown viene ingiunto di scoraggiare, in qualunque modo, la ragazza dal partecipare a qualunque tipo di attività religiosa, persino semplici eventi sociali.

Sette mesi dopo aver assunto queste misure provvisorie, nel novembre 2008, arriva la decisione finale: non solo viene revocato l’affidamento di Miryam ma si arriva addirittura a disporre la cancellazione di Ms. Brown dal registro ufficiale dei genitori affidatari. Non potrà più svolgere in futuro la sua vocazione.

Miryam, devastata e sconvolta dall’accaduto, viene riconsegnata alla sua famiglia d’origine (ignara della conversione), ed un’altra ragazza affidata a Ms. Brown viene portata via.

A nulla è servito il fatto che la stessa sedicenne avesse spiegato di essere interessata al cristianesimo molto prima dell’affidamento, e che, sempre secondo la ragazza, Ms. Brown avesse precisato, fin dal giorno del suo arrivo, che lei avrebbe potuto continuare a professare liberamente la propria fede islamica. Peraltro, il rispetto nei confronti delle convinzioni religiose della ragazza da parte di Ms. Brown era già stato esaminato prima dell’affidamento da parte delle autorità e non erano assolutamente sorti problemi a riguardo. Per evitare ogni questione, comunque, Ms. Brown era arrivata addirittura a scoraggiare la conversione della ragazza, offrendosi di accompagnarla in moschea o da amici di famiglia musulmani.

Miryam, però, si è dimostrata irremovibile nella sua decisione di diventare cristiana.

Gli assistenti sociali che seguivano la ragazza erano, oltretutto, a conoscenza del fatto che frequentasse, fin dal gennaio del 2008, una chiesa cristiana e non hanno mai sollevato obiezioni al riguardo. Avevano persino parlato con lei di tale circostanza e non sembrava avessero disapprovato.

Ma tutto ciò non è servito ad impedire la drastica decisione delle autorità comunali.

Ms. Brown ha tenuto a precisare che la cosa per lei più sconvolgente in questa vicenda surreale è il concetto riduttivo di cristianesimo manifestato dalle autorità ed il fatto che tale credo religioso fosse considerato «in such a negative light». La donna si è giustamente chiesta se lo stesso clamore sarebbe scoppiato anche nell’ipotesi che un “suo” ragazzo si fosse convertito ad una fede diversa da quella cristiana.

E forse sta proprio qui il problema.

 

Le autorità comunali non amano avere guai con la comunità musulmana. Sanno benissimo che l’islam non consente la conversione ad altre religioni e che la condanna coranica dell’apostasia si traduce persino con la pena di morte.

Piuttosto che creare un incidente diplomatico con i suscettibili islamici si preferisce, oramai, infliggere un torto ai più docili cristiani.

Ma la dura tempra di Ms. Brown, tipo tosto, non è di quelle che si arrendono facilmente.

Così, la donna affidataria ha deciso di impugnare davanti all’Alta Corte la decisione assunta dalle autorità comunali nei suoi confronti. L’udienza è fissata per il prossimo 3 marzo 2010. Sull’esito della causa è difficile pronunciarsi, anche se Nigel Priestley, il legale di Ms. Brown, si dichiara fiducioso e sostiene che non esistono prove in base a cui la conversione possa costituire un elemento pregiudizievole per lo sviluppo della personalità della ragazza.

Come ha fatto notare il mio amico Mike Judge, avvocato attivista nel campo del diritto alla libertà religiosa, ogni individuo dovrebbe essere libero di modificare le proprie convinzioni in materia di fede, ancora di più in una società che asserisce essere libera e democratica.

E’ davvero difficile immaginare che gli stessi gravissimi provvedimenti adottati in questo caso sarebbero stati assunti nell’ipotesi che un ragazzo affidato ad un genitore ateo avesse deciso di non credere più in Dio, mutando così le proprie convinzioni religiose.

Questo esempio rende evidente il «double standard», l’insopportabile doppiopesismo cui sono quotidianamente sottoposti oggi i cristiani in Gran Bretagna.