In questo impressionante momento di commozione collettiva che sta portando milioni di pellegrini a Roma per l’ultimo saluto ad uno dei più grandi Pontefici della storia, verrebbe il desiderio di un maggiore silenzio di riflessione, o, in certi casi, di analisi più rispettose e meditate.
Reagisco quindi a titolo del tutto personale ad una incredibile domanda che Bruno Vespa, durante un recente trasmissione di Porta a Porta, ha rivolto a Don Julian Carron, successore di Don Giussani alla guida del movimento di Comunione e Liberazione. In sostanza, Vespa ha detto: “Ora che è scomparso questo Papa, che ha dato così tanto sostegno e forza a Comunione e Liberazione, non è che per voi adesso la ricreazione è finita?”.
Un po’ per la difficoltà della lingua e molto per la sua dignitosa classe, Don Carron ha risposto brevemente e semplicemente con una frase che cito a memoria “Noi siamo figli, e quindi seguiremo ciò che la provvidenza vorrà.”
Sono stato allievo e amico personale di Don Giussani, negli anni 70 e 80 ho avuto da lui la responsabilità di coltivare e coordinare le vocazioni nel campo dell’arte, del giornalismo e dello spettacolo del Movimento. L’ho sempre fatto con grande passione e cercando sempre di evitare commistioni improprie tra questo impegno privato e le mie crescenti responsabilità in campo professionale e istituzionale. Mi viene però spontaneo, di fronte a questa improponibile domanda, provare a tracciare pubblicamente un parallelo tra due grandi della Chiesa scomparsi a neanche un mese di distanza: Karol Wojtyla e Don Giussani. Perché proprio grazie alla frequentazione con Don Giussani (insieme abbiamo viaggiato per migliaia di chilometri, incontrando Papi, Cardinali, Vescovi, Ministri, Statisti, gente comune) ho avuto anche occasione di incontrare molte volte Papa Wojtyla. Ho così potuto vedere e percepire di persona perché Giovanni Paolo II apprezzasse così tanto il carisma di Don Giussani e di CL. Carisma che aveva già avuto modo di conoscere in Polonia, grazie all’attività missionaria di Don Francesco Ricci, e degli abituali pellegrinaggi che il Movimento aveva cominciato da molto tempo a fare ogni anno al santuario di Ckhestokova.
Se vogliamo distinguere da quella che certamente in queste ore può costituire anche una forma di mitizzazione alla John Lennon (tipo papa-boys, per intenderci) la TV in cerca di sensazione non è mai stata capace di raccontare i giorni e giorni che le migliaia di pellegrini passano ogni anno – spesso nel fango e nella pioggia – per camminare cantando, pregando o stando in silenzio. Quando mio figlio ci andò, ricordo che ne tornò profondamente cambiato. Così oggi questa TV fatica a capire il senso di questo immenso pellegrinaggio. Come anche un mese fa restò stupita ed incredula di fronte agli oltre 40.000 sotto la pioggia ai funerali del “Gius”. E’ stata proprio in quell’occasione che con appassionata lucidità, il Cardinale Ratzinger, inviato proprio dal Papa, ha fornito la chiave della profonda stima di Wojtyla per CL. “Don Giussani aveva capito – ha detto dal pulpito del Duomo di Milano il Decano del Collegio Cardinalizio – che il Cristianesimo non è una somma di norme da seguire, ma un’esperienza da vivere in ogni circostanza”. Esattamente il concetto wojtyliano di “Aprite le porte a Cristo, non abbiate paura”. “L’esperienza cristiana è come il vino – soleva ripetere Don Giussani – se non lo provi non lo puoi giudicare”. Ben sapendo che se questo avveniva in una comunità alla sincera ricerca nel tentare di capire perché siamo al mondo, l’esperienza non poteva che dilagare, riempiendo di senso il cuore e la vita delle persone.
Ricordo che una volta, neanche un anno dopo l’ascesa di Giovanni Paolo II al Soglio Pontificio, in uno dei tanti lunghi viaggi in macchina verso Roma per una udienza, Don Giussani mi disse “Se le forze negative che albergano fortemente nella Chiesa non glielo impediranno (forse alludeva a quella sporcizia di cui ha parlato Ratzinger proprio durante la Via Crucis Pasquale) questo Papa diventerà un altro Gregorio Magno. Per quanto mi riguarda ne sono sicuro”. E alludeva anche alle grandi riforme proprio nel campo della musica, settore del quale allora mi occupavo direttamente, insieme al teatro, alla scuola di giornalismo radiofonico e tante altre cose. Un altro particolare ricordo cui sono molto affezionato è quando portammo a Castelgandolfo. L’Interrogatorio a Maria di Giovanni Testori. Il cerimoniale chiamò il “Gius” e me per andare ad accompagnare il Papa nell’attraversare i giardini fino al luogo della rappresentazione. Poiché io non avevo la cravatta, il Gius con benevolo rimprovero mi tratteneva per la giacca, mandando avanti per stare vicino al Papa Don Ricci, Don Camisasca, Don Tantardini. Ma il Papa prima della rappresentazione voleva saperne di più, e fu così che giocoforza mi inginocchiai appoggiando sul Suo grembo il librone che avevo preparato con l’illustrazione di tutte le attività artistiche del Movimento. E mi tenne lì venti minuti appoggiato alle Sue ginocchia mentre Lui sulla sua sedia di vimini voltava con estrema attenzione le pagine e mi domandava cos’era la Cooperativa dell’Ippopotamo, l’Officina Creativa, il Cimm del maestro Molino, i dettagli dell’incontro con Testori e del tour italiano dell’Interrogatorio a Maria.
Con molta commozione, molti anni dopo, lo ri-incontrai nell’udienza privata che volle dare al CdA Rai presieduto da Zaccaria di cui io facevo parte. Era già molto sofferente, ma assai vigile quando voleva. Così alla fine dell’incontro che si era svolto intorno ad un tavolo, mi avvicinai a Lui e gli mostrai un libretto che avevamo realizzato per celebrare l’incontro di Castelgandolfo, dove ovviamente c’era la foto di un giovanotto praticamente sprofondato tra le Sue ginocchia… Mi guardò più volte, guardò la foto, poi fece un largo sorriso, per quello che gli permetteva il Parkinson incipiente, e mi disse “ah, Castelgandolfo, ricordo benissimo…certo che…tempus fugit…bene, vedo che ha continuato e ora è in luogo così importante per la verità…continui ancora così, mi raccomando…e mi saluti tantissimo Don Giussani”. Quel Giussani che mi ripeteva sempre che “Il bello è lo splendore del vero”, e per questo dava tanta importanza allo studio musicale nei cori, alla creazione teatrale, alla musica.
Molte delle migliaia di chilometri che abbiamo percorso assieme li abbiamo fatti ascoltando musica classica, commentandola, scegliendola. Ora, quasi tutti quei brani sono raccolti nella collana della Deustche Grammophon “Spirto Gentil”. Da quella sua particolare attenzione alla manifestazione della bellezza è nata quella forte tensione allo studio della storia dell’arte nel Movimento, alla creazione di ogni genere di manifestazione artistica, che sempre hanno trovato il culmine al Meeting di Rimini. Ricordo la gioia di Giussani quando il Papa nell’82 andò al meeting e fece poi anche un incontro in Diocesi. Aveva visto le mostre, aveva visto la passione, la dedizione e lo studio di questi giovani che non era dei semplici papa-boys, ma erano il nucleo di una futura classe dirigente, nel senso di una classe con alle spalle studi e passioni solidamente ancorati alla tradizione cristiana capace di costruire cattedrali. Così come per Wojtyla, anche per Giussani la carità era sinonimo di bello.
Ricordo che di fronte ad una famiglia che aveva avuto il coraggio di adottare cinque figli o alla presentazione di iniziative allora sul nascere come il Banco Alimentare o l’Avsi o le iniziative missionarie di Don Ricci o Padre Scalfi, l’espressione da lui più usata era “Che spettacolo!”. Perché lo stupore di fronte a quanto di bello può fare l’animo umano grazie a quello “spalancare le porte a Cristo” era per lui come per il Papa lo spettacolo della vita.
Per questo patì moltissimo quella vigliacca insinuazione dei finanziamenti da parte della Cia negli anni 70’: grandi titoli sui giornali, smentite di qualche riga anni dopo, quando si accertò che non c’era nulla di vero. Come tutti i profeti (mi assumo la responsabilità di definire tale Don Giussani) che nascono ogni trecento anni, il Gius conosceva benissimo il valore dell’esperienza che stava riuscendo a diffondere nel mondo.
Un ultimo ricordo: sempre in uno dei nostri viaggi verso la capitale, mi raccontava con una sorta di tenera ma solida soddisfazione una frase di Paolo VI che finalmente aveva smesso di dare ascolto ai vescovi critici nei confronti del Movimento: “Vedete, ho capito che i ragazzi di Don Giussani sono come l’acqua. Tu la fermi da una parte, e questa rifluisce dall’altra. E’ meglio lasciarli andare…lo spirito soffia dove vuole.”. Era contento, ma mai sazio di testimoniare, costruire, incitare. Non gli ho mai visto sul volto un attimo di superbia, via via che con Paolo VI e poi Papa Lucani, e poi con Giovanni Paolo II il suo carisma veniva sempre più riconosciuto. Basta guardare questa foto per capire il suo spirito, per capire cosa voleva dire Carron con quel “noi siamo figli”.
E per capire quanto Giovanni Paolo II fosse “padre”. Ho riflettuto a lungo in questi giorni su tutto questo. Ho riflettuto su tutti i volti che ho incontrato insieme al “Gius”, ai volti di quelli che il Papa ha riconosciuto come suoi figli per l’impegno nel sociale, nella missione, nell’arte, nella comunicazione. Gente che ha costruito cattedrali e capanne, cooperative per disabili, scuole, asili, ospedali, e sono centinaia di migliaia in Italia come nei villaggi russi e africani, nelle favelas brasiliane, nelle metropoli americane: in ottanta paesi del mondo. Gente che ama, soffre, suda, ma canta anche e si diverte pure.
Perché, come diceva Santa Teresa di Lisieux – un’ altra frase che mi diceva sempre il Gius – “un vero sacrificio non costa sacrificio”. Tutto questo dovrebbe miseramente terminare con la “fine della ricreazione” come ha così incredibilmente domandato Bruno Vespa? Mi auguro di no, anzi ne sono più che certo. Ho rivisto il Papa a novembre, in occasione dell’evento creato da Andrea Andermann cui ho cercato di dare, per quanto ho potuto, una mano: l’Armata Russa in Vaticano. E Giovanni Paolo II, che non ha potuto coronare il suo sogno di un viaggio in Russia, lo ha potuto fare grazie al coro dei cosacchi, che sono venuti a cantare da lui invece di abbeverare i loro cavalli…In quell’occasione, come avrebbe fatto il “Gius”, il Papa ha voluto controllare e correggere di persona persino il programma di sala. L’ultima volta che ho rivisto Don Giussani da vivo è stato nel 2000, a pranzo da lui nella casa dei Memores Domini. Voleva un resoconto della mia esperienza di consigliere Rai.
Mi ha ricevuto insieme alla mia piccola famiglia in un salottino, con un disco di Beethoven sul giradischi e un divertito sguardo di intesa, a ricordo dei nostri antichi e prolungati ascolti musicali. Lottando anche lui con il Parkinson, ripetendo – ma sorridente, quasi a scusarsi per qualche difficoltà di parola, che “senectus ipsa morbus est”, ci tenne in quattro e quattr’otto una lezione sul fatto che l’inferno c’è, ma è vuoto, grazie alla grande misericordia di Dio. A pranzo guardava mio figlio ventenne, assai studioso all’università e cresciuto sinceramente nella fede in Dio, e ricordando di aver celebrato il mio matrimonio, e ben dieci anni dopo, di averlo battezzato e tenuto in braccio appena nato, esclamò ancora una volta: “Che spettacolo”.