Quattro anni di pontificato sono difficilmente riassumibili in poche parole. Soprattutto un pontificato denso di eventi, di contenuti e, purtroppo, anche di polemiche, come quello di Benedetto XVI. Sandro Magister, vaticanista dell’Espresso, ci aiuta a dare uno sguardo complessivo e profondo su questo quattro anni di guida della Chiesa da parte di Josef Ratzinger.

Magister, a più riprese, nei suoi articoli, lei ha fatto notare la distanza che c’è tra il Papa reale e quello di cui parlano i giornali. In cosa consiste questa differenza?

Si parla spesso di un Papa a capo di una Chiesa del “no”, che pronuncia divieti su quelle che oggi sono considerate le frontiere dell’autodeterminazione del singolo individuo. Da qui tutte le polemiche anti-papali, ultima delle quali quella sulle frasi pronunciate in merito alla lotta contro l’Aids. Tali polemiche offuscano quasi del tutto quella è la particolare e assoluta originalità di questo Papa, l’essenza del ruolo che egli intende svolgere. Le accuse contro di lui, anche dentro la Chiesa, si assommano in questa critica: un Papa che pronuncia troppi no sulla morale, ma che è troppo silenzioso sull’annuncio evangelico. E questo è proprio il rovesciamento dell’essenza di questo pontificato.

 

Qual è allora in sintesi l’aspetto essenziale di questo pontificato?

È un pontificato straordinariamente concentrato proprio sull’annuncio del Vangelo, sulla trasmissione della Parola di Dio, e su quella che lui stesso ha definito essere la priorità della sua missione di Papa: di fronte all’indebolirsi della fede, che è ovunque in pericolo, è necessario portare Dio all’uomo e accompagnare l’uomo a Dio. E non un Dio qualsiasi – sempre parole sue – ma il Dio che parla sul Sinai e che poi si incarna in Gesù morto e risorto. Le parole che ora ho citato sono tratte da uno dei suoi testi più fuori le regole, cioè la lettera da lui scritta lo scorso 10 marzo ai vescovi di tutto il mondo a seguito delle ben note vicende sulla revoca della scomunica ai vescovi lefbvriani. Formalmente, una lettera scritta per chiarire i malintesi; in realtà, l’occasione per dire con estrema chiarezza gli intendimenti del suo svolgere la missione di Pietro.

Lei ha anche parlato del Papa come di un grande «liturgo e omileta».

Sì, è un grande annunciatore della Parola di Dio che si fa atto, che si fa contemporanea all’uomo d’oggi, celebrata nel rito che porta in mezzo a noi, sacramentalmente, la persona di Gesù, vero Dio e vero uomo. Questa è l’essenza della sua azione.

Se dovessimo ripercorre questi quattro anni di pontificato, quali sono secondo lei i capisaldi dal punto di vista teologico del messaggio di Benedetto XVI?

I punti di riferimento per un osservatore esterno che volesse accostare la figura di questo Papa sono facilmente individuabili. È un Papa che ha scritto molto; e soprattutto le cose che ha scritto di suo pugno sono quelle che meglio chiariscono la sua personalità, la sua sensibilità, i suoi progetti. In ordine cronologico, innanzitutto il discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, in cui delineò la corretta lettura e attuazione del Concilio Vaticano II. In secondo luogo la lezione di Ratisbona, che – faccio subito notare – non fu un incidente, come universalmente si è scritto.

In che senso non fu u incidente, viste le reazioni che scatenò?

Se si guardano i risultati sul versante dei rapporti tra Islam e cristianesimo, non c’è il minimo dubbio che i passi che sono stati compiuti da Benedetto XVI su questo versante sono senza precedenti. Sono la prima messa in opera di un dialogo operoso, che è naturalmente incipiente, ma che d’altronde è partito da zero. Ed è partito non nonostante la lezione di Ratisbona, ma proprio grazie a quella lezione. Lì Benedetto XVI, come spesso fa, ha avuto l’audacia e il coraggio di dire le cose forti, vere, di chiamare le cose con il loro nome. Ha individuato il punto nevralgico, il punto che rendeva difficile l’incontro tra Islam e cristianesimo. Una questione che è sintetizzabile nei tre termini: fede, ragione, violenza. Dove manca un incontro fruttuoso tra fede e ragione, la violenza ha libero campo. Quindi l’antidoto alla violenza è mantenere vivo il rapporto tra fede e ragione; cosa che il cristianesimo ha fatto faticosamente, come lui ha detto, e che l’Islam è ancora lontano dal fare. Il dialogo vero nasce da qui, e da nessun’altra parte.

Oltre a Ratisbona, quali sono gli altri testi cui prima si riferiva?

Oltre a quanto detto, ci sono naturalmente il libro “Gesù di Nazaret” e le encicliche. Per quanto riguarda l’opera su Gesù, il Papa sta ora scrivendo il secondo volume – e pare sia abbastanza avanti – dedicato alla passione e alla resurrezione. Il primo volume ha avuto un successo editoriale molto elevato, nonostante sia un testo molto impegnativo; e ha consentito tra l’altro di stabilire un rapporto diretto tra l’autore e il lettore. Benedetto XVI dimostra in questo grandi capacità di comunicatore. Poi l’enciclica sulla speranza, forse ancor più rappresentativa della prima, la Deus caritas est; anche perché la prima è divisa in due parti, di cui la seconda prodotta dagli uffici vaticani, seppure poi rivista dal Pontefice. Quella sulla speranza, invece, è totalmente sua dalla prima riga all’ultima, e non è nemmeno scritta nello stile consueto delle encicliche. Un testo straordinario per capire questo Papa. Poi ovviamente ci sono molti altri discorsi, come ad esempio il discorso di Verona; e da ultimo, come detto, la lettera a tutti i vescovi sul caso dei lefebvriani.

Qual è invece il contenuto di questo pontificato dal punto di vista pastorale, in riferimento soprattutto ai viaggi e al contatto diretto tra Benedetto XVI e il popolo cristiano?

Naturalmente da questo punto di vista la sua agenda non è paragonabile a quella di Giovanni Paolo II; quando egli era ancora in buona salute, i suoi viaggi erano continui, lunghi e imponenti anche come organizzazione. Quelli di Benedetto XVI sono più limitati nel numero, e più concentrati nel tempo e nell’agenda stessa del viaggio. Comunque in queste occasioni egli dimostra la capacità di entrare fortemente in contato diretto con le persone che lo incontrano. Sono stati viaggi che hanno riscontrato un successo molto maggiore di quello preventivato. Grandi masse festanti, e soprattutto attente alle sue parole. Pensiamo al viaggio in Francia: durante l’omelia nella Messa sulla grande spianata, davanti a 250 mila persone, c’erano un silenzio e un’attenzione impressionanti. Questo non è un fatto consueto; non avveniva così nemmeno con Giovanni Paolo II. Così accade anche ogni domenica in Piazza San Pietro, nonostante egli non sia un Papa che dice cose facili, ma sempre molto dense, impegnative e forti; ed è proprio per questo motivo che secondo me viene ascoltato con estrema attenzione. Anche tra chi non è cattolico, o ha un rapporto un po’ distaccato con la Chiesa, c’è in ogni caso un grandissimo rispetto e ammirazione per il suo messaggio.

Ora si appresta all’importante viaggio in Terra Santa: cosa ci si aspetta da questo appuntamento così importante?

Difficile azzardare previsioni. Quello che si può intuire è che questo viaggio, che il Papa ha fortemente voluto, non è stato innanzitutto pensato in termini per così dire “illusori” da un punto di vista di una pacificazione politica in questa terra martoriata. Benedetto XVI ha in mente di compiere un pellegrinaggio religioso, nel senso pieno della parola. Vuole andare in Terra Santa, sulle orme di Gesù; e secondo me le parole che dirà saranno fortemente centrate sulla Parola di Dio che lì ha preso sostanza e carne. Questo rispecchia la sua visione, per cui è solo da qui, dall’incontro con Dio, che può nascere una possibilità di cambiamento del cuore dell’uomo, e quindi anche di pace.