Il primo maggio è la festa del lavoro. Spesso però ci dimentichiamo di una categoria particolare di lavoratori: i carcerati. Ma che senso ha il lavoro in carcere? È indispensabile per la ripresa umana. Lo si legge chiaramente dalle testimonianze di alcuni detenuti della Casa di Reclusione di Padova che lavorano alle dipendenze della Cooperativa sociale Giotto e del Consorzio Rebus e che pubblichiamo. Il lavoro – e quindi il confronto con gli altri – oltre a restituire dignità a chi è recluso è fondamentale per una vera presa di coscienza dei propri errori e del dolore causato agli altri, requisiti indispensabili per chi vuole intraprendere un cammino improntato al rispetto delle regole di civile convivenza. Un aspetto forse troppo trascurato quando si parla e si celebra il lavoro.



Mi è stato chiesto cosa significhi lavorare in carcere. Prima di rispondere è fondamentale precisare a quale lavoro ci si vuole riferire, perché in carcere sono quasi sempre esistiti i lavori cosiddetti “domestici”, cioè tutte quelle mansioni d’istituto che vengono svolte quotidianamente: il portavitto, lo scopino, lo spesino, insomma tutte quelle attività che non permettono di avere un riscontro con il mondo esterno, ma che si limitano al buon andamento carcerario.



Da quando invece è stata data la possibilità ad alcune aziende di portare il loro lavoro tra le mura penitenziarie, l’aspetto lavorativo ha assunto il suo vero valore e con tutte le dinamiche che lo contraddistinguono, come ad esempio la produttività e il riscontro sul mercato.

È vero, pur di non stare in cella un detenuto apprezza anche il lavoro domestico, ma senza avere i riscontri emotivi ed economici d’un vero lavoro. Quando invece ci si rende conto che il proprio operato entrerà nel circuito del mercato vero, ancora con maggior verità si potrà operare e sentirsi parte di una società che con gli anni di carcerazione si sente sempre più lontana dal proprio essere. Ecco allora che si acquisisce sempre maggior desiderio di realizzare prodotti veri, validi, che lascino soddisfatti gli utenti esterni, e questa consapevolezza fa sentire meglio anche noi che lavoriamo. Questo perché ci sentiamo in debito con la società, e se in piccola parte con il nostro lavoro possiamo soddisfare e rendere felice qualche persona è come se restituissimo a questa società una piccolissima parte di ciò che, con i nostri errori, abbiamo tolto.



Io lavoro al call center dove prenoto le visite mediche per tante persone, ognuna diversa e con le problematiche più svariate, a volte purtroppo si tratta anche di malati terminali. Cerco di fare il mio lavoro con il massimo impegno, la massima concentrazione e la massima serietà. E alla fine della prenotazione, se sento che la persona è rimasta contenta nell’ottenere ciò che mi chiedeva, a maggior ragione lo sono anch’io, perché so che parte di quella “piccolissima felicità” l’ho potuta regalare io impegnandomi ed adoperandomi al massimo per trovare una soluzione al problema, piccolo o grande che fosse. Questo mi fa sentire un po’ più leggero, con addosso meno angosce del solito, e la gioia che provo mi fa sentire veramente libero e felice.

Quindi sì al lavoro in carcere, ma che possibilmente sia un vero lavoro e che permetta ai detenuti di confrontarsi con le tematiche della società, con il mercato aziendale, con tutte le difficoltà di un lavoro reale, e che possa permetterci di sentirci ancora facenti parte della società dalla quale siamo stati giustamente esclusi.

(Alberto)

Sono cittadino croato, condannato ad una pena “esemplare” e in carcere da otto anni. I primi anni di detenzione li ho passati in un altro carcere, dove il “mondo lavoro” quasi non esisteva: un paio di posti in cucina, due spesini, due addetti alle pulizie. Cooperative o ditte esterne che offrissero lavoro agli internati? Neanche l’ombra. Allora mi è sorta spontanea una domanda: ma per una persona che ha commesso un grave errore, che funzione ha il carcere?

Nella sfortuna che mi è capitata ho però visto la luce e la speranza quando mi hanno trasferito nel carcere penale “Due Palazzi” di Padova, un istituto, uno dei pochi a dire il vero, che offre un lavoro ai carcerati grazie al Consorzio “Rebus”, che impiega oltre ottanta reclusi.

Lavoro da circa quattro anni, prima in cucina e poi in pasticceria. I dolci che produciamo sono di alta qualità, e vengono venduti a pasticcerie esterne, bar, ristoranti, mense di Padova e non solo. Un anno fa ho chiesto ai miei responsabili di transitare in pasticceria per imparare quel mestiere, e dopo poco tempo mi è stata data questa possibilità. Produrre dolci è un bel mestiere, ma è difficile e mi impegna sempre di più, giorno dopo giorno, e allo stesso tempo mi dà anche un sacco di soddisfazioni, perché col mio lavoro sto facendo qualcosa di utile anche per gli altri.

Ogni volta che creo qualcosa lo faccio al massimo delle mie possibilità: so che quel dolce deve essere di qualità, esteticamente impeccabile e soprattutto buono, perché finirà sul tavolo di una festa, magari di un battesimo o di un matrimonio, quindi sento addosso tutte le responsabilità che un lavoro come questo richiede.

Durante l’ultimo periodo prenatalizio abbiamo prodotto i 32mila famosi panettoni che hanno fatto il giro del mondo, e quasi ogni giorno il nostro laboratorio era “invaso” da giornalisti e fotografi, da personaggi del mondo politico, culturale e dello spettacolo incuriositi da come una “squadra” di detenuti, capeggiati da tre maestri pasticceri esterni, potessero fare tali prelibatezze.

È proprio questo che serve in carcere, un lavoro serio che dia la possibilità di riflettere e di cambiare, sancendo così la vittoria dello Stato che riesce a portare tanti detenuti sulla strada di un vero reinserimento sociale e umano.

(Davor)

Per me la parola “lavoro”, che ora considero fondamentale, fino a una decina di anni fa era a dir poco incomprensibile. Fin da ragazzino avevo preferito la via del guadagno facile, tanti soldi in fretta e con poca fatica, al posto di una vita onesta e regolare. Pensavo che questo stile di vita mi avrebbe reso felice, potente, apprezzato e stimato, invece alla fine ho perso tutto, e ho veramente toccato il fondo. Poi, qualche anno fa, in questo carcere mi è stata data una possibilità, e ho imparato che una vita onesta ti fa sicuramente vivere meglio, perché non c’è nulla di peggiore che fare i conti, giorno dopo giorno, con la propria coscienza.

Da alcuni anni lavoro nei capannoni di questo carcere; prima sono stato nelle lavorazioni delle valigerie Roncato, successivamente nel laboratorio di confezionamento dei gioielli Morellato, e infine, attualmente, all’assemblaggio delle biciclette. Ogni lavoro, pur nelle sue diversità e nelle varie complicazioni, mi ha dato delle soddisfazioni, soprattutto quando ho cominciato a ottenere dei permessi premio: nelle valigerie, nelle gioiellerie e nei supermercati ho trovato moltissimi dei prodotti che, col mio lavoro e con le mie mani, ho contribuito a produrre. Fino a quando non potevo uscire quasi non mi rendevo conto di tutto quello che con le mie mani potevo fare, ma ora ho la prova provata e la consapevolezza che, se ci viene data un po’ di fiducia, siamo ancora delle persone capaci di fare delle cose buone e positive.

Se rimanessi oggi senza lavoro credo che impazzirei, perché ora, quando mi sveglio al mattino rendo grazie a Dio per tutto quello che mi sta dando, scendo al lavoro col sorriso sulle labbra e affronto la giornata con serenità e soprattutto con uno spirito completamente diverso da quello che, poco più di 15 anni fa, mi aveva portato a distruggere me stesso ma soprattutto tutti coloro che mi stavano vicino. Grazie al lavoro, e ad alcune persone che frequento in questo ambiente, ho anche scoperto la gioia e la fede in Cristo, e questo ha per me più valore di qualsiasi altra cosa, perché mi ha fatto scoprire e apprezzare un modo completamente nuovo di affrontare e di vivere la vita.

(Franco)

Potrà sembrare strano, ma diversamente da quel che si pensa la prima richiesta che solitamente la maggior parte delle persone detenute rivolgono alle direzioni carcerarie è proprio quella di lavorare, così da non rimanere sempre chiusi in cella e rendersi economicamente indipendenti, in modo da non gravare più di tanto sui familiari. Almeno inizialmente, quindi, la domanda di lavoro può essere quasi esclusivamente “strumentale” a una miglior qualità della vita detentiva, ma può anche succedere, soprattutto se si ha la possibilità di svolgere un’attività concreta, vera e produttiva, che l’approccio al lavoro si modifichi e si modelli col passare del tempo.

Anch’io, come quasi tutti i miei compagni, oltre a voler stare fuori dalla cella il più possibile dopo sette anni di carcere forzatamente ozioso in cui non avevo svolto alcuna attività (nel carcere dove mi trovavo prima non c’era praticamente nulla), nel 2001 chiesi insistentemente di lavorare perché, tra le altre cose, non sopportavo più di dipendere, anche nelle centomila lire mensili per le spese minime di sopravvivenza, da mia mamma pensionata al minimo.

Quindi, quando nel 2002 ho cominciato a lavorare nel laboratorio dei manichini per l’alta moda della Cooperativa Giotto, era soprattutto a questi due elementi che pensavo, e non avevo minimamente idea di come le cose sarebbero cambiate da lì a qualche anno. Nel 2005, infatti, la Cooperativa è riuscita in un progetto veramente rivoluzionario per un carcere, aprendo in questa struttura una “cellula” dell’ufficio prenotazioni delle visite mediche specialistiche degli ospedali e delle strutture sanitarie padovane, alle quali si rivolgono cittadini da tutte le parti d’Italia.

A causa delle sopravvenute esigenze aziendali mi sono così trovato catapultato, inaspettatamente e nel giro di pochi giorni, in una realtà lavorativa completamente nuova e per certi versi dolorosa. Da una telefonata settimanale di dieci minuti a mia mamma, l’unico mio “collegamento” con il mondo esterno nei 12 anni precedenti, sono passato a 50-60 telefonate giornaliere che ancora oggi, spesso e volentieri, mi danno emozioni inaspettate. Le voci dei bambini che piangono, il rumore del traffico in sottofondo, le voci dolci dei tanti anziani che chiamano e perfino i complimenti quando cerco in tutti i modi di risolvere un problema non mi hanno mai lasciato indifferente, ed ho riscoperto quanto importante sia mettersi a disposizione di chi si trova in difficoltà a volte insormontabili.

Mi è capitato di trattenere a stento le lacrime di fronte al disperato pianto di una giovane signora che doveva prenotare una visita per il papà malato terminale, e sono rimasto molto colpito dalla struggente disperazione di una mamma che, alla notizia che la figlia di dieci anni aveva un tumore al cervello, proprio pochi giorni prima aveva perso il figlioletto che aveva in grembo.

Io, che con i miei reati la sofferenza l’ho inflitta in modo molto pesante, non posso fare a meno, ogni volta, a soffermarmi su questi episodi strazianti, e questo confronto quasi quotidiano col dolore degli altri mi fa riflettere ancora più profondamente sulle mie scelte sbagliate.

Oltre a questo, a colpirmi è stata anche la manifestazione di fiducia che mi è stata concessa.

Mi sono sempre chiesto come fosse possibile, con tutto quello che avevo fatto, che i responsabili della Cooperativa Giotto avessero cercato proprio me, che di “garanzie” non ne offrivo nemmeno una; mi sono domandato come fosse possibile che ci fosse ancora qualcuno disposto a darmi una seconda chance, seppur limitata all’ambito lavorativo, e per di più in un’attività dove il contatto con le persone esterne è continuo e particolarmente delicato, e quindi sono stato costretto a rialzare la testa, a “reagire”. La conseguenza di tutti questi interrogativi è che non voglio e non posso permettermi di sbagliare, quindi cerco di lavorare sempre al meglio delle mie capacità, come in una sorta di dimostrazione – agli altri, ma ancor di più a me stesso – che “nonostante tutto” sono ancora in grado di fare e di dare qualcosa di positivo.

Da quando lavoro la “qualità” della mia vita detentiva è indubbiamente e nettamente migliorata: non devo più chiedere soldi ai miei familiari, anzi sono io che ogni tanto mando qualcosa alle mie figlie, ma nonostante questo, e contrariamente a quel che si potrebbe pensare, l’apertura di credito di persone disposte a puntare ancora di me ha avuto un effetto spiazzante, assolutamente imprevedibile, che anziché alleviare l’insostenibile peso della mia coscienza mi ha fatto sentire, ancora più prepotentemente, tutto l’affanno dei miei errori.

(Marino)

Appena entrato in carcere mi è stato assegnato un numero, il mio numero di matricola. Da quel momento ho sentito forte la perdita della mia identità e l’adattamento a un sistema nel quale non ho molti diritti, ma soltanto alcune concessioni. Poi, come un fulmine a ciel sereno, è arrivato questo lavoro, mi è stata accordata fiducia e l’opportunità di dimostrare che IO non sono soltanto un numero di matricola, non sono soltanto il reato che ho commesso… ma molte altre cose.

IO posso aiutare gli altri, regalare un sorriso, una parola di conforto.

E tutto ciò è stato possibile soltanto grazie all’opportunità concessami e al sorriso disarmante che ho trovato negli operatori e nei miei compagni di lavoro che già da tempo vivono questa esperienza. Sento che con questo lavoro sto riacquistando la mia identità, ora non mi vergogno più con i miei familiari perché in qualche modo anch’io ho ritrovato uno spazio nella società, e giorno dopo giorno sto dimostrando che l’opportunità offertami sta dando buoni frutti.

Aiutare il prossimo mi fa stare bene perché mi sembra quasi di ripagare, almeno in parte, il torto commesso. Ora vivo meno dolorosamente e meno inutilmente la carcerazione, perché sento che tutto questo non è più tempo perso.

(Fabrizio)