Troppo spesso abbiamo un’idea un po’ convenzionale del lavoro: l’ufficio, le giornate passate di fretta, le telefonate. Ma la dimensione del lavoro è qualcosa di molto più profondo, e valido in qualunque circostanza. Ad esempio: che cosa significa lavorare per una donna malata di Aids che vive in Uganda e passa la giornata a spaccare le pietre?
Non è un esempio inventato: è la realtà della maggior parte delle donne del Meeting Point International di Kampala, donne sieropositive che hanno trovato in questo luogo un motivo per affrontare con gioia la fatica del vivere. E l’incontro con il significato della vita ha per queste donne un nome preciso: è Rose Busingye, fondatrice e ora presidente del Meeting Point Kampala Association.
Rose, oggi è la festa del lavoro: una festa che spesso qui da noi è segnata da una certa connotazione politica e ideologica. Qual è per te il senso del lavoro?
Innanzitutto una persona lavora bene e con soddisfazione solo quando sa chi è e sa a chi appartiene. Questa consapevolezza rende la vita avvincente, e permette di affrontare il lavoro sapendo il perché della propria fatica; quando una persona scopre il senso del vivere, allora anche il lavoro diventa espressione di questo. E ciò vale naturalmente in qualsiasi circostanza: sia per chi sta davanti al computer tutto il giorno, sia per chi, come molte delle donne del Meeting Point di Kampala, passa la giornata spaccando sassi. Non c’è differenza, perché il lavoro più grande è far venire a galla il valore della singola persona.
Che cosa spinge le donne del Meeting Point, malate di Aids, a continuare ad impegnarsi nel lavoro, anziché abbandonare tutto e lasciarsi andare?
Innanzitutto le donne che lavorano qui scoprono il fatto che la loro vita non è definita dalla malattia, ma da qualcosa di più grande. Da qui nasce l’impegno a lavorare anche duramente per migliorarla questa vita, che è così preziosa: nasce una grande responsabilità su sé stessi. È solo un io così, costituito da qualcosa di più grande, che può affrontare ogni giorno le fatiche e le crisi, sia personali, sia dovute alla malattia.
Prima accennavi al fatto che il tipo di lavoro di queste donne è molto duro: potresti spiegarci bene che cosa fanno?
Sì, come dicevo, molte delle donne che sono qui ospitate al Meeting Point di lavoro spaccano i sassi, riducono le pietre in pezzi piccoli e poi li vendono ai costruttori. E lavorano tutti i giorni, tranne il giovedì, che è una giornata di canti, di danze e di lavori manuali, quindi più leggera. Ma lo spaccare i sassi è comunque un lavoro che devono continuare a fare, altrimenti non hanno letteralmente da mangiare. Sono mamme, con figli che vanno a scuola mentre loro lavorano; le spese scolastiche vengono per la maggior parte finanziate con le adozioni a distanza. Un’altra cosa importante che caratterizza il loro lavoro è che stanno in gruppo, fanno tutto insieme, e si danno una mano vicendevolmente.
Che cos’è che unisce queste donne, così da aiutarsi anche sul lavoro?
Le nostre donne sono come una vera e propria banda. Pensate: addirittura è capitato che una volta è venuta la polizia per cercare una delle donne. Prima ancora di sapere il perché, le donne si sono schierate davanti ai poliziotti dicendo: “non vi diamo la nostra sorella”. Si difendono proprio come tra fratelli. E poi accolgono anche i bambini orfani, li portano a casa e danno loro da mangiare quello che danno ai propri figli.
Tra le tante storie di queste donne, ne hai qualcuna in particolare che secondo te merita di essere raccontata?
Sono tutte importanti, ed è quasi impossibile raccontare una storia singola, diversa dalle altre: loro sono come una tribù, vanno insieme ovunque, non solo al lavoro, ma anche all’ospedale per prendere le medicine. E le persone che le vedono dicono: queste stanno meglio di noi, anche noi vogliamo stare qua e vivere con loro. Persone sane e ricche dicono questo di donne povere e malate di Aids. Questo accade perché vedono persone cambiate, in cui la fede è penetrata nei tratti profondi della vita, arrivando dove si forma la percezione di sé e delle cose. La fede redime, nel senso che permette di stare di fronte a un sasso da spaccare sapendo che quello non ti definisce. In questo senso la cultura diventa una bellezza di vivere; ma devi incontrare qualcuno che ti dà questo senso.
Eppure rimangono persone povere, che continuano a vivere in una grandissima difficoltà.
Racconto un episodio, per spiegare bene questo punto. Quando è venuto l’ambasciatore italiano, una donna parlandogli ha detto: “non pensare che noi siamo poveri, perché in realtà siamo più ricchi degli altri”. L’ambasciatore a sentire questo si è commosso. Queste donne non sono povere perché hanno scoperto che c’è qualcuno che le ama, e quindi sentono di avere quello che molte altre persone non hanno. E questa constatazione non è solo spirituale, ma arriva fino agli aspetti più concreti, al punto che in alcuni casi hanno voluto anche donare un po’ di soldi ad altre persone in difficoltà.
Cioè?
Quando ad esempio c’è stato l’uragano Katrina negli Stati Uniti hanno voluto raccogliere un po’ di soldi per mandarli alle persone in difficoltà. E anche adesso con il terremoto in Abruzzo hanno avuto una reazione straordinaria, e totalmente spontanea. Hanno detto: «quelle persone ci appartengono, sono dei nostri, perché sono della “tribù di don Giussani”!». E hanno raccolto un po’ di soldi: sono pochi, ma hanno un valore immenso. Anche perché la persona che è in difficoltà non sente tanto il bisogno dei soldi, quanto il fatto che dentro quel gesto possa avvertire la presenza di qualcuno che dice: non piangere, io sono con te.