Basta dare un’occhiata alla stampa internazionale per dire che il Custode di Terra Santa, Padre Pizzaballa, ha ragione quando dice che con la sua visita il Papa entra in una cristalleria molto delicata, dove ogni parola e ogni gesto corrono il rischio di essere strumentalizzati. Forse per questo il portavoce vaticano Federico Lombardi ha definito questo pellegrinaggio come «un atto decisamente coraggioso e una bella testimonianza di impegno per portare messaggi di pace e riconciliazione in situazioni non facili».
Benedetto XVI conosce i problemi. Ha passato mesi ad ascoltare suggerimenti e consigli con la pazienza e la mansuetudine che lo contraddistinguono, così come la tenacia nel momento di tracciare il solco che la sua coscienza di pastore gli indica. La prima delle sue preoccupazioni riguarda i cristiani della zona. Sa che proprio tra loro si è diffusa in un primo momento la preoccupazione per le possibili manipolazioni che possono essere fatte da una lettura politica favorevole agli interessi di Israele.
A loro ha voluto rivolgersi la scorsa domenica nell’Angelus per dirgli che va loro incontro come fratello e come padre, che porta loro la conferma nella fede propria dell’apostolo Pietro; per dirgli che la Chiesa intera è con loro, che comprende le loro sofferenze e affanni, e che confida che rimangano fermi nella fede, testimoni vivi di una storia che è cominciata a Betlemme in Giudea e che, sebbene arrivi ai confini del mondo, non può slegarsi da quella geografia.
Il Custode Pizzaballa ha detto alcuni mesi fa che i cristiani di Terra Santa hanno bisogno di vincere l’emarginazione, la sensazione di solitudine e persecuzione, hanno bisogno di alzare lo sguardo oltre questa specie di gabbia fatta dai problemi politici e sociali, hanno bisogno di vincere anche la tentazione delle piccole dispute quotidiane che minacciano di indebolire la coscienza della loro unità.
La presenza e le parole del Papa, che sa ricondurre tutti i problemi al cuore della fede, non può che essere opportuna per rispondere a queste necessità. E questa grazia, questa testimonianza che crea vera comunione, andrà molto oltre le interpretazioni di parte, la piccola politica da salotti o da sacrestia che rischia di distrarci da ciò che è realmente importante.
Inoltre, il Papa non è portatore di una soluzione politica per il conflitto, ma metterà senz’altro al centro uno sguardo che nasce dal Vangelo e come tale può illuminare e sanare le ferite e gli scontri. Benedetto XVI non fa un calcolo di opportunità, ma confida nella capacità della fede cristiana di dar forma a una convivenza di pace e libertà.
Lui sa che entra in un campo di tensioni, dove ognuno attenderà da lui una conferma più o meno esplicita alle proprie posizioni e interessi. Le possibili interpretazioni da parte di israeliani e palestinesi sono già conosciute a priori, ma ciò che importa ora è conoscere l’interpretazione che darà Benedetto XVI, un uomo che non cede alla correttezza politica né alla diplomazia mal intesa.
Per lui è essenziale sottolineare la radice ebraica della fede cristiana, il mistero dell’indissolubile connessione tra ebrei e cristiani fino alla fine dei tempi e la responsabilità comune che deriva da questo legame. Ma senza nascondere, né ridurre, la differenza, il segno di contraddizione che incarna Gesù di Nazareth, che si è proclamato Figlio di Dio, e che Paolo ha inteso e descritto come nessun altro. Fratelli e amici fino alla morte, ma con la libertà di dire sì e no quando è il caso. Perché il popolo israeliano non può aspettarsi che l’amicizia della Chiesa diventi un avvallo in tutte le contingenze storico-politiche che attraversa, ma deve intenderla come una fedeltà piena di stima e di venerazione, per la quale a volte è giusto dire “no” senza che questo voglia dire risentimento o separazione.
Quanto al mondo musulmano, siamo ancora nel solco aperto dalla lezione del Papa a Ratisbona, in cui è cresciuto il frutto della lettera dei 138 saggi islamici. È cominciata una nuova tappa di dialogo sulle basi più realiste e profonde, dove si affronta la questione cruciale delle relazioni tra fede e ragione, la libertà religiosa e il rifiuto di qualsiasi giustificazione alla violenza. La generosa tappa di Benedetto XVI ad Amman sottolinea questo punto di speranza, con l’affettuosa accoglienza della corte hascemita, promotrice di un dialogo e di una convivenza che risultano esemplari in mezzo a un panorama in cui non mancano le difficoltà dei cristiani nelle terre del Corano. È molto probabile che nella tappa giordana il Papa incontri i rifugiati cristiani iracheni, martirio vivo della Chiesa agli inizi del XXI secolo. Anche con questo deve fare i conti il dialogo tra cristiani e musulmani.
Quanto ai palestinesi, il Papa ha voluto ricordare esplicitamente le loro sofferenze e giuste aspirazioni nell’Angelus di domenica scorsa. Visiterà uno dei campi dei rifugiati e riceverà una delegazioni di cristiani e musulmani della striscia di Gaza, dove ancora sono aperte le ferite della recente guerra, e dove ogni giorno continua un sordo e sanguinoso scontro tra le fazioni palestinesi di Hamas e Al-Fatah.
«Vado come pellegrino di pace», ha ripetuto il Papa, ma una pace basata sulla giustizia, la verità e il perdono. Parole grandi, per alcuni forse troppo grandi, ma che sicuramente solo il Papa può dire, vicino a un muro che divide la terra e disegna l’odio reciproco e il rancore, e vicino a un altro muro, che ricorda la storia tormentata e anche la speranza del popolo di Israele.
Costruire la pace non è solo questione di accordi, ma di un cambiamenti nei cuori, e a ciò è diretto questo pellegrinaggio. Con la forza misteriosa che è apparsa una notte a Betlemme e che ha creato un popolo nuovo che il Papa umilmente conduce.