Nell’enciclica di Benedetto XVI c’è l’idea che lo sviluppo debba far spazio al «principio di gratuità». Utopia?

«Anche una lucidatrice o una macchina per fresare il legno possono essere un aspetto della gratuità».

Prego, professore?

«Pensi al mondo della piccola e media impresa, ai tanti che vogliono sì il profitto, ma come strumento: per vivere e far vivere meglio, ma anche per il bene comune. Sono gli imprenditori a cui piace fare impresa e le cose per bene, che hanno cura del prodotto perché ci tengono e desiderano creare un ambiente confortevole, allearsi col lavoratore, rendere ricco il territorio…». Giorgio Vittadini, fondatore della Compagnia delle Opere, è presidente della Fondazione per la sussidiarietà. Un tema centrale, nella Caritas in veritate. «Penso alla tradizione del mercato italiano, al movimento cattolico e a quello operaio…».



E che c’entra?

«C’entra, c’entra. Per fare l’esempio dell’Italia, sono movimenti che da subito hanno reso il capitalismo intriso degli ideali di giustizia e di ricerca del bene comune, al di là del vituperato liberismo finanziario. Del resto, all’inizio del secolo scorso le casse rurali e di risparmio o le banche popolari facevano finanza creando bene comune».

Non c’è utopia, dunque?

«C’è una lettura profetica, piuttosto, fondata sulla realtà. La sussidiarietà e il mercato sono affrontati a partire da una concezione dell’uomo. Anni fa si parlava al massimo di “risorsa umana”, qui si pone l’uomo al cuore dell’economia: carità nella verità. È rivoluzionario: la carità – il “dono di sé commosso”, diceva Don Giussani – è la verità dell’uomo fatto a immagine di Dio, che è carità. Quindi l’uomo è responsabile verso gli altri uomini».

E allora?

«E allora la sussidiarietà è la valorizzazione di questo uomo che non sta da solo ed è capace di fare il bene. Nasce da un domanda: come posso portare il bene comune? Con lo Stato, dall’alto? O piuttosto dando valore a tutte quelle persone, movimenti e corpi intermedi della società che dal basso, essendo espressione dell’uomo, non possono che agire per il bene?».

Il Papa si riferisce alla globalizzazione…

«Il governo dall’alto, come unione di Stati, rischia di non avere effetto perché non valorizza soggetti capaci di fare del bene. Nel mondo ci sono comunità locali, associazioni, movimenti, realtà che operano per la libertà e la giustizia, per l’ambiente o contro il lavoro minorile, esistono persone come l’economista Muhammad Yunus che vanno coinvolte. C’è un’interconnessione di realtà virtuose che dice molto più dei modelli teorici».

E la realtà italiana può essere un modello?

«In Italia c’è già un mercato molto più vicino a quello di cui parla l’enciclica. Dalle piccole e medie imprese alle associazioni artigiane alla Lega delle cooperative alla CdO, abbiamo un’economia che accetta il mercato avendo però uno scopo ideale».

L’etica nell’economia?

«Il mercato può essere inteso come egoismo puro o come condivisione o come offerta di beni che migliori la vita delle persone. Uno dei grandi meriti dell’enciclica è di non dire “no” al mercato e all’impresa e “sì” solo a non profit e volontariato. Ridefinisce impresa e finanza in modo meno isterico, offre un’idea di mercato più sfaccettata. Rappresenta la fine dell’ideologia per cui l’economia, per definirsi, non ha bisogno dell’uomo».

Va bene, ma la lucidatrice?

«Adam Smith distingueva tra valore d’uso e valore di scambio. E il valore di scambio c’è perché questa cosa è utile, fatta bene e bella, quindi vivo meglio. Se il profitto è uno strumento, qual è lo scopo? Il “dono di sé commosso”: l’imprenditore guarda al profitto ma insieme cerca di rendere il suo prodotto migliore. Quella del Papa è un’idea di economia più ricca, a colori, reale».

(Gian Guido Vecchi)

Pubblicato su Il Corriere della Sera del 9 luglio 2009