Il dibattito innescato dalle recenti parole di Benedetto XVI sulla tendenza “nichilista” del pensiero contemporaneo e sul suo doppio versante, quello della «dittatura del razionalismo», da un lato, e quello della «dittatura del relativismo» dall’altra, merita forse un pensiero meno frettoloso, senza bloccare le posizioni in campo dietro l’alternativa – più artificiale che reale – tra coloro che affermano dogmaticamente una verità rivelata contro la libera ricerca dell’uomo e coloro che invece esaltano la libertà dei soggetti umani e delle loro scelte contro l’idea che possa esserci un’esperienza oggettiva della verità.
La prima reazione che verrebbe spontanea, a chi osservasse la questione a partire non tanto da posizioni standard ma da una comprensione spassionata della propria esperienza, è che in un certo modo siamo tutti nichilisti, nella misura in cui è evidente la grande alternativa esistenziale, culturale e sociale che attraversa la nostra vita: per dirlo con la sensibilità di Fëdor Dostoevkij – uno dei grandi interpreti del nichilismo, visto da lui come il più drammatico evento “spirituale” dell’epoca moderna -, se l’uomo riesca o non riesca a “salvarsi” da sé, vale a dire a compiere con le sue forze il destino di felicità cui pure ogni “io” si sente inevitabilmente chiamato. «Se gli uomini venissero privati dell’infinitamente grande» – osserva lo scrittore russo ne I demoni – «essi non potrebbero più vivere e morrebbero in preda alla disperanza» (trad. it. Garzanti, Milano 1990, vol. II, p. 709).
Il problema del nichilismo mi sembra sia tutto concentrato in questa condizione: se l’uomo ha bisogno per vivere di qualcosa o di qualcuno per cui valga la pena vivere, egli è in qualche modo sempre rimesso davanti a un’opzione di fondo, cioè al riconoscimento di ciò che rende davvero degna la vita. La questione è tutt’altro che decisa una volta per tutte: non c’è filosofia o religione che possa evitare al singolo uomo di impegnarsi personalmente con questo riconoscimento, mettendo in azione la propria libertà.
Il significato infinito di sé e del mondo, se c’è, può manifestarsi infatti solo nella mia libera scelta, nella mia partecipazione consapevole, nell’offerta amorosa della vita. Sono questioni che tutti comprendono con facilità, se solo rammentino cosa ha significato nella propria storia personale l’esperienza di essere accolti, voluti da un altro, di essere se stessi grazie non semplicemente alle proprie capacità, ma per il rapporto con una realtà che mi accetta e mi afferma per quello che sono.
La verità del mondo ha a che fare con un accadimento di questo tipo (se ne riparlerà nell’imminente Meeting di Rimini il cui tema è “La conoscenza è sempre un avvenimento”), e non può coincidere semplicemente con una dottrina o con un programma morale, né con un’ideologia già confezionata o con un’utopia indefinita. E mentre l’illusione di ogni “razionalismo” è pretendere di stabilire con le nostre misure questo ideale smisurato (perché è solo di fronte a questa dis-misura che la coscienza umana trova corrispondenza); la pretesa di ogni “relativismo” è invece quella di negare che la ragione umana sia fatta di questo desiderio infinito, anzi sia fatta per l’infinito.
È stato fatto notare da alcuni intellettuali, spesso risentiti e infastiditi da quella che pare loro essere una semplificazione e un’ingenuità da parte del Papa, che in filosofia il nichilismo sarebbe ben altra cosa. Esso rappresenterebbe (lo dico con parole mie) non solo la «svalutazione di tutti i valori» della tradizione, ossia la «morte di Dio» e la «posizione» di nuovi valori del tutto immanenti e anti-umanistici (Nietzsche), ma anche la scoperta che nell’epoca della tecnica dispiegata, quella cioè in cui valgono solo “gli enti” (le cose determinate dai nostri progetti) e nient’altro, abbiamo dimenticato il mistero dell’essere. E questo è successo non per una nostra scelta, ma perché sarebbe l’essere stesso che si rifiuta di essere afferrato nei nostri concetti e si ritrae rispetto ad ogni presa da parte nostra.
In questo suo aspetto più enigmatico (Heidegger ma indirettamente anche Wittgenstein) il nichilismo sarebbe l’epoca in cui dell’essere non ne è più niente, per il motivo che l’essere non può più darsi “in presenza”, non può più essere mostrato dagli enti. In una parola: la verità delle cose è letteralmente “impossibile”, cioè non è calcolabile come una cosa tra le altre, e insieme a ciò non potrà più essere incontrata o esperita, e le cose non potranno più essere “segno” di essa.
La posta in gioco del richiamo di Benedetto XVI a me pare che, lungi dall’ignorare questo esito filosofico “alto”, cerchi di indicare una via diversa di affrontare il problema. La questione è dunque: sarà possibile conoscere questo “impossibile” (come lo chiama Derrida)? Vi è una strada per «toccare l’infinito» (l’espressione è di Cartesio)? O l’impossibilità è il nostro ultimo destino?
Cristo è interessante per la ricerca umana esattamente perché costituisce questa possibilità dell’impossibile, non saltando a piè pari la nostra ricerca, ma offrendo una strada reale, sensibile, alla nostra conoscenza e alla nostra libertà. Benedetto XVI parla di questo problema alla luce della testimonianza dei martiri (Edith Stein, Massimiliano Kolbe) che di fronte all’inferno cruento dell’insignificanza e della negazione di ogni possibilità, quali erano i lager, hanno riconosciuto una ragione per cui vivere, così evidente, che per essa si può dare la vita. Una ragione che si dà appunto in presenza, come una presenza reale.
È lo stesso struggente presentimento che ho ritrovato in un’altra grande “nichilista” del Novecento, Virginia Woolf, quando parlava dei «momenti di essere» di cui sono fatte le nostre giornate, e che sono però «racchiusi in momenti di non essere molto più numerosi», come se il «bene» della realtà fosse «avvolto in una sorta di ovatta senza contorni», cioè dall’insensatezza e dalla mancanza di soddisfazione. E la scrittrice continua dicendo che è solo per una «scossa violenta», cioè grazie a dei «momenti eccezionali» che può aprirsi uno squarcio in quell’ovatta e le cose farsi trasparenti, cioè diventare «reali».
Dall’avvertenza del nichilismo si apre una chance: «Di qui nasce potrei dire una filosofia; o comunque un’idea che ho sempre avuto; che dietro l’ovatta si celi un disegno; che noi – tutti noi essere umani – rientriamo nel disegno; che il mondo intero è un’opera d’arte; che noi siamo parte di quell’opera d’arte”» (Momenti di essere. Scritti autobiografici, La Tartaruga edizioni, Milano 2003, p. 92).