In Italia diventa possibile l’aborto chimico, e questo genera preoccupazione certo per il fatto in sé; ma c’è altro ed è questo “altro” che bisogna finalmente affrontare. Già, perché magari saremo miopi, ma ci sembra che si discuta – e tanto -sulle forme per ottenere l’aborto, e non si discute – se non marginalmente – su come evitarlo. Perché?
Dite quante pagine di giornali avete visto che tendono a spiegare la realtà dell’interruzione di gravidanza, nel senso dell’inoppugnabile arresto della vita di un bambino non ancora nato, cui spesso (almeno dalla 7°-8° settimana) già batte il cuore. Dite quante risorse sono spese per valorizzare attività come quelle dei Centri di Aiuto alla Vita, o, se non piacessero per qualche motivo come sono organizzati, per crearne altri con modalità alternative.
Questo è il vero dramma, e guardate quanti esempi analoghi! Si discute tanto su come e se permettere le decisioni su come finire la vita dei malati, ma si discute poco su come rendere la vita di chi soffre meno faticosa. Si discute tanto su come e se liberalizzare la droga, ma pochissimo sui motivi che portano tantissimi giovani a drogarsi. Pagine e pagine sono dedicate a come arginare l’alcolismo soprattutto tra gli adolescenti, ma nulla su come superare il disagio giovanile. Fiumi di inchiostro per la diffusione di anticoncezionali, ma nemmeno una pagina su come permettere di fare tanti figli. Perché?
Probabilmente perché la nostra è una società delle scappatoie, in cui la parola d’ordine è che chi ha un problema deve essere aiutato a schivarlo, sfuggirlo, nasconderlo, censurarlo ma non a vincerlo, perché per vincere un problema bisogna chiamarlo per nome e per far questo bisogna avere la certezza che esiste da qualche parte una verità e una risposta. Probabilmente tra poco diventerà reato quello del poliziotto o del pompiere che cercherà di dissuadere una persona dal suicidio, perché – si dirà – è una libera scelta del fidanzato deluso che si sporge dal ponte o della ragazza che si avvelena.
Bisogna riprendere a chiamare le cose col loro nome, a chiamare “bambino” un bambino anche se ancora non è nato. E a trattarlo di conseguenza. E’ uno sforzo educativo di rispetto alla verità, che deve iniziare dai banchi di scuola, e che invece trova spesso o il silenzio o il “panem et circenses”, cioè la parola d’ordine imperante oggi: “spassatela!”. Che poi vale solo per chi può permetterselo: non per chi è povero, né per chi è malato o disabile. Né per chi vive il dramma del divorzio (che in TV sembra troppo spesso una passeggiata) o di un figlio drogato o di un parente malato.
Arriva l’aborto chimico, mentre stiamo raccogliendo una petizione di firme per l’attuazione di leggi già esistenti per permettere – come già possibile in Francia – che la donna che ha un aborto (spontaneo o no) possa avere le spoglie del bambino, seppellirlo, dargli un nome, per poter avere il diritto di elaborare il lutto. Se lo vuole. Non ci sembra di chiedere tanto, e tantissime donne, con associazioni di medici e genitori (“La Quercia Millenaria”, “Ciao Lapo”, “Come-Te Contro l’Handifobia”, “Giovanni XXIII”) reclamano questo diritto. Per inciso, ricordo che si può aderire online al sito: http://firmiamo.it/sepolture .
Dunque si tratta di educare a non fuggire, di chiamare le cose col loro nome e mostrare come sia più bello, anche se apparentemente più duro, affermare la vita, cioè usare la ragione, dare i giusti nomi alle cose; per non avere traumi peggiori di quelli che si vorrebbero evitare. “La cultura dominante di oggi – scriveva Luigi Giussani – ha rinunciato alla ragione come conoscenza. L’uomo non accetta la realtà come appare, e vuole inventarla come vuole lui, vuole definirla come vuole lui, vuole darle il volto che vuole” (Realtà e giovinezza- La sfida, 1995). Ma la realtà è testarda e mostra il suo volto duro anche quando lo si vuole ignorare o ridipingere artificialmente. E la realtà è che le donne che abortiscono volontariamente hanno rischi di disagi psicologici (Nursing Times, 13 gennaio 2009) e disagi addirittura maggiori di quelle che perdono il figlio non volontariamente (BMC Medicine, 15 dicembre 2005); e, paradosso, questi rischi non sono minori di quelli che si hanno se si fa nascere il figlio “non programmato” invece di abortirlo (Lancet 23 agosto 2008).
L’introduzione di una nuova modalità di aborto ci richiama dunque a ritrovare dove sia il vero interesse delle donne, se nell’incontrare una società che di fronte al loro disagio le lascia sole con la sola alternativa dell’aborto (chimico o meccanico che sia), o nello scoprire come un frutto duro da ottenere, ma gustoso, la responsabilità di un nuovo femminismo e un nuovo diritto alla maternità che non deve essere necessariamente – come impone il costume imperante – rimandata ai 30-35 anni con la prospettiva limitata rispetto alle sue attese e possibilità morali del figlio “unico e perfetto”.