Possiamo valutare il tema dell’immigrazione superando le visioni, per altro ambedue motivate, che lo trattano o solo come problema di sicurezza o solo in base a dottrine valoriali? Dobbiamo. Per l’Italia la trasformazione dell’immigrazione in ricchezza è una necessità. La crescita demografica è stagnante. La proporzione tra giovani produttivi ed anziani bisognosi di pensione e medicine sta pericolosamente cambiando verso una configurazione dove i primi saranno di meno e non in grado di sostenere i secondi. L’impatto di questo problema ci sarà presto, probabilmente nel periodo 2020-2050. In tale scenario la priorità politica è quella di aumentare nei prossimi due decenni la popolazione giovane in modo da aumentare la crescita e quindi il gettito fiscale dedicato alla spesa pensionistica e medica.



Il debito pubblico è di tale entità da richiedere per molte decadi, oltre che tagli parziali del volume assoluto nel breve termine, una crescita robusta del Pil per ripagarlo. In sintesi, senza un aumento della popolazione attiva marcato nei prossimi 20 anni, lo Stato non potrà pagare le pensioni, la sanità, ridurre il debito, allocare risorse per investimenti modernizzanti e ridurre le tasse. La popolazione residente non fa abbastanza figli. Quindi l’unica possibilità per l’Italia di sopravvivere come nazione a ricchezza crescente è quella di importare capitale umano “pronto”. Il calcolo di quanto sia necessario non è ancora precisato, ma è probabile che ce ne vorrà parecchio. Per questo, secondo me, va generata una nuova funzione istituzionale specializzata nella gestione dei flussi di entrata e nella trasformazione degli immigrati in fattore di ricchezza.



Cosa dovrà fare l’eventuale nuovo ministro dell’Immigrazione? Prima di tutto il calcolo delle quote di immigrati che servono in Italia per anno in base al triplo criterio, da incrociare, di fabbisogno nazionale, capacità del sistema di assorbirli, calcolando anche la probabilità della loro “cittadinazione” o temporaneità. Poi dovrà disegnare una funzione di rapida istruzione linguistica e civica nonché di formazione tecnica. L’obiettivo è quello di ridurre a 6 mesi il tempo per mettere un immigrato in grado di lavorare e di praticare il nostro sistema conoscendone costumi e leggi.



La politica urbanistica delle città andrà modificata con il criterio di evitare la concentrazione degli immigrati in ghetti. Più saranno dispersi e prima si indeboliranno i codici di identità originaria a favore del nuovo. Le leggi che regolano gli accessi al lavoro e dintorni andranno modificate per favorire le assunzioni di immigrati, in equilibrio con i diritti dei già residenti. Tutta la politica economica nazionale dovrà essere spostata verso una configurazione di maggiore crescita propulsiva, calcolando l’aumento demografico prospettico.

La gestione morale dell’immigrato andrà fatta realisticamente – senza pregiudizio difensivista o solidarista – con bastone e carota. Da un lato, la possibilità di prendere la cittadinanza dopo 5 anni di buona condotta, passando un esame di conoscenza della Costituzione e con prova di competenza lavorativa. Dall’altro, al primo atto di cattiva condotta l’espulsione immediata. Bisognerà anche creare uno schema di attrazione competitiva, perché esiste una concorrenza con le altre nazioni per importare il capitale umano migliore.

In conclusione, la valutazione del valore economico dell’immigrazione dovrebbe portare alla costruzione di istituzioni che lo rendano produttivo, soluzione e non problema, profitto e non costo.

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