Tutti quelli che si occupano di protezione dell’ambiente – ed in particolare di “diritto o politiche ambientali” – sanno che c’è un paradosso alla base di tutti i tentativi di proteggere il nostro ecosistema. Il paradosso è questo. Il meccanismo che le società hanno da sempre escogitato per evitare che le persone tengano comportamenti sbagliati è obbligare chi causa un danno a risarcirlo. Quando questo danno non riguarda una persona ma una collettività allora, normalmente, al risarcimento si aggiunge, come deterrente, una pena. In ogni caso, il sistema più affidabile per evitare i comportamenti sbagliati è, generalmente, punire chi sbaglia o obbligarlo a risarcire i danni che ha causato. Il paradosso di cui parlavo è che tutto questo sistema non funziona più quando in ballo c’è l’ambiente. E la ragione sta nel fatto che entrambi questi sistemi – il risarcimento (civile) o la sanzione (penale) – hanno un punto in comune: intervengono dopo che il danno si è verificato.



Di qui il paradosso: l’ambiente è un bene che una volta danneggiato non c’è risarcimento o sanzione in grado di ripristinarlo, neppure per equivalente. Quando arriva il diritto, nella protezione dell’ambiente, è sempre troppo tardi. Senza poi calcolare che in molti casi comminare una multa a chi sbaglia – poniamo ad esempio, una impresa che inquina – non vuol dire affatto indurre quell’imprenditore a smettere d’inquinare, ma semplicemente scaricare sul prezzo dei prodotti di quella impresa il costo della multa (è la sostanza del principio comunitario del “chi inquina paga” che costituisce la base fondamentale delle cosidette “pollution taxes”).



La cosa, francamente, più inattesa per un giurista o un politico contemporanei è che l’ ipotesi più realista e ragionevole per risolvere oggi questo paradosso venga dall’insegnamento di Papa Benedetto XVI. E’ indubbio che questo Papa ha un attenzione del tutto particolare al tema dell’ambiente – da ultimo si veda il bellissimo discorso tenuto pochi giorni fa al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede -; ma la cosa ancor più interessante è il punto di vista dal quale affronta questo tema e per spiegarlo torniamo al paradosso da cui siamo partiti. Una volta alterato, un ecosistema o non si ripristina più ovvero, quando questo può accadere, richiede tempi lunghissimi e costi altissimi.

Il punto, dunque, è come prevenire le violazioni e non come reprimerle. E questo vuol dire – sempre ma nel caso dell’ambiente in maniera specialissima – che l’obiettivo dev’essere quello (positivo) di trasmettere una ragione per cui valga la pena comportarsi in un certo modo e non solo quello (negativo) di minacciare una pena. E’ proprio su questo punto – indicare una ragione credibile che attivi la responsabilità dell’uomo per i suoi comportamenti – che l’Enciclica Caritas in Veritate propone una prospettiva estremamente convincente e realistica. «Se la natura, e per primo l’essere umano, vengono considerati come frutto del caso o del determinismo evolutivo, la consapevolezza della responsabilità si attenua nelle coscienze. Nella natura il credente riconosce il meraviglioso risultato dell’intervento creativo di Dio, che l’uomo può responsabilmente utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni – materiali e immateriali – nel rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso. Se tale visione viene meno, l’uomo finisce o per considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne» (48).

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Nessuna sanzione penale o nessuna legge riusciranno mai a “produrre” l’unico valore realmente necessario: la responsabilità di ognuno per i propri comportamenti e per le conseguenze che questi hanno sul piano ecologico. E questa responsabilità scompare se la natura perde il suo carattere di “dato”, cioè di segno, di realtà emergente in questo momento da qualcosa che non appartiene all’uomo, ma a cui l’uomo, a sua volta, appartiene. Senza questa consapevolezza la natura o la si sfrutta a proprio piacimento o la si idolatra come una nuova divinità, ma in ogni caso non la si “rispetta”, cioè non se ne vede il significato.

 

Ancor più illuminante questo passaggio: «Le modalità con cui l’uomo tratta l’ambiente influiscono sulle modalità con cui tratta se stesso e viceversa. Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell’uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale. È una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, quando l’educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse» (51).

 

Il Papa richiama anche un altro principio notissimo tra gli studiosi di diritto e politica ambientale: quello della “equità intergenerazionale”. «I progetti per uno sviluppo umano integrale non possono pertanto ignorare le generazioni successive, ma devono essere improntati a solidarietà e a giustizia intergenerazionali, tenendo conto di molteplici ambiti: l’ecologico, il giuridico, l’economico, il politico, il culturale» (48).

 

E così il Pontefice evoca l’altro grande paradosso connesso alle politiche o alle leggi che vogliono proteggere l’ambiente, la sfida forse più grande e radicale per le democrazie contemporanee: come rappresentare gli interessi di chi non vota? Se l’esistenza di libere elezioni è il (solo) requisito che identifica una democrazia, questo implica che chi non vota non è rappresentato.

 

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Questo fatto apparentemente ovvio elimina dal circuito rappresentativo tantissime persone: i minori, i non cittadini, i deboli, gli incapaci, gli anziani non autosufficienti, gli embrioni, insomma tutti quelli che la grande Hanna Arendt chiamava “gli apolidi”, i senza polis. Ma, soprattutto, questo esclude dalla rappresentanza, e quindi dalla discussione, le “generazioni successive” come dice il Papa, quelle composte da chi ancora non è nato.

 

Le questioni ambientali, per loro stessa natura, riguardano più i nostri figli che noi e su questo le democrazie, se affidate solo al principio di maggioranza, falliscono. Il triste e devastato scenario delle macerie (politiche) lasciate dal fallito summit mondiale di Copenaghen, evocato con preoccupazione dal Papa nel citato discorso ai diplomatici, è la dimostrazione di quanto questo paradosso paralizzi le democrazie contemporanee.

 

L’idea che si possa sacrificare un interesse proprio attuale per un bene futuro più grande per tutti richiede un fondamento che solo una concezione chiara di uomo e realtà può trasmettere; nessuna legge o trattato internazionale può produrre o sostituire questo giudizio sulla realtà che ci circonda.