Non è esagerato definire storico l’incontro avvenuto domenica fra il Papa Benedetto XVI e la comunità ebraica romana. Nei moltissimi secoli di convivenza documentata fra il vescovo di Roma e gli ebrei che hanno vissuto ininterrottamente nella sua diocesi (e fra il V e il XIX secolo sotto il suo dominio politico) questa è la seconda visita papale. La prima avvenne ventiquattro anni fa ad opera di Giovanni Paolo II.



L’importanza della visita è sottolineata dalle polemiche che l’hanno preceduta. Queste riguardano non solo le vessazioni che la comunità ebraica romana ha subito per tutto il periodo del dominio secolare del papato, come è stato sottolineato dal discorso del rabbino capo di Roma di fronte al papa: una prigionia collettiva, violenze ricorrenti, roghi di libri, rapimenti di bambini ebrei per convertirli. Tutto questo è oggetto di storia, è stato in qualche modo riconosciuto e condannato dagli ultimi pontefici, ma resta nello sfondo della memoria storica della comunità. Le polemiche hanno avuto come oggetto il silenzio di Pio XII durante la Shoà, il suo rifiuto di condannare apertamente le retate nazifasciste che portarono migliaia di ebrei romani a morire ad Auschwitz.



Naturalmente una visita non è un processo, tutto il contrario: serve a uno scambio pubblico di opinioni per arrivare a una verità condivisa e a una possibilità di convivenza e di amicizia. Per questa ragione è stato estremamente importante che i discorsi che si sono fatti in occasione della visita e gli atti del pontefice siano entrati in pieno nel problema dell’atteggiamento della Santa Sede durante gli anni del nazismo. Il papa infatti, all’inizio della visita ha simbolicamente sostato davanti alla lapide che ricorda la deportazione del 16 ottobre 1943 (oltre mille sequestrati e inviati ai campi, solo diciassette tornati) e all’altra che ricorda un bambino di due anni, Stefano Gay Tachè, ucciso nel 1982 da un attentato palestinese; si è alzato e si è rivolto ai deportati quando questi sono stati citati nel discorso di accoglienza.



 

Riccardo Pacifici, presidente della comunità romana, ha ricordato in un discorso nobile e sentito che la sua famiglia fu salvata in un convento di suore di Firenze e ha riconosciuto il grandissimo aiuto che molti cattolici diedero, a rischio della loro vita, agli ebrei perseguitati dal nazismo. Ma proprio per questa diffusa generosità cattolica ha detto, appare "un atto mancato" ancora più grave il silenzio del papa; e lo stesso concetto è stato ribadito dal rabbino capo della comunità, affermando che esiste il silenzio di Dio, mistero imperscrutabile per coloro che hanno fede, ed esiste il silenzio degli uomini, che va sempre messo in discussione e giudicato.

Il papa ha risposto con un discorso elevato e di grande respiro, ricordando che la Shoà è stato il culmine dei grandi mali del secolo scorso e che essa arrivò a colpire anche Roma, lamentando l’indifferenza di alcuni, ma rivendicando il coraggio di molti e il tanto bene fatto dalla Santa Sede. La diversità delle posizioni, insomma, non è stata del tutto superata, ma vi è stato un tentativo di raggiungere un giudizio equilibrato su questo passato che non si può dimenticare ma bisogna saper collocare sulla base dei fatti. Per questo da parte ebraica si è reiterata la richiesta dell’apertura degli archivi vaticani del periodo in discussione. Un altro tema su cui le posizioni non coincidono è stato quello dello Stato di Israele, dagli ebrei sottolineato di nuovo con forza la condizione essenziale di un riscatto millenario e della ritrovata libertà, su cui il Papa non si è espresso, sulla linea di un riconoscimento molto tardivo del nuovo stato (avvenuto solo nel ’92) e di un generale atteggiamento di cautela verso il mondo arabo che caratterizza la diplomazia vaticana.

 

 

Più facile l’incontro sul piano teologico, dove entrambe le parti hanno sottolineato la fratellanza e la comune base nella Bibbia, sia pure interpretata diversamente dalle due religioni. Papa Ratzinger ha sottolineato a lungo e con particolare convinzione l’importanza del “decalogo di Mosé”, come base etica comune non solo alle due religioni, ma a tutta l’umanità. Per esempio, un tema che è risuonato nel discorso del rabbino come in quello del papa è l’esigenza di una ecologia “non pagana”.

Il bilancio finale di questo incontro è molto positivo. Come sempre quando ci si parla fra diversi (e dopo tanto tempo, e dopo tanti eventi e in pubblico) le ragioni della differenza sono state fortemente sottolineate. Ma proprio questa capacità di discutere su problemi anche dolorosi in un contesto caldo e amichevole è la premessa per un cammino di concordia futura.