Sarà un caso che all’indomani del pronunciamento della commissione al Parlamento francese sulla questione del burqa, il direttore amministrativo del tribunale penale di Amman, Fadel al-Hamud ha dichiarato al giornale locale ’al-Raì che nel 2009 c’è stato un notevole aumento di crimini commessi per mezzo del niqab. Per l’esattezza 104 commessi da persone mascherate sotto il niqab a fronte dei 170 registrati nei due anni precedenti.



Sarà un caso che Hasan al-Shalghumi, l’imam di Seine Saint Denis si è dichiarato a favore del provvedimento contro il burqa e il niqab, dichiarando pubblicamente che tali indumenti non hanno nulla di religioso, non hanno niente a che vedere con il Corano e che chi li indossa debba trasferirsi in Paesi che, come l’Arabia Saudita, avallano queste pratiche.



In Italia, a fronte del dibattito suscitato dal pronunciamento francese, varie sono state le reazioni e parecchi i tentativi di strumentalizzazione, fino ad arrivare alle insulse accuse di provvedimento xenofobo. Liberare le donne, levarle dallo condizione di fantasmi, da brutali imposizioni di sottomissione e segregazione rappresenterebbe dunque un atto di xenofobia? No! Atteggiamento pari alla xenofobia è tenerle segregate adducendo supposte e menzognere giustificazioni di ordine religioso, come quelle contenute nella vuota proposta di legge che alcuni esponenti del Pd hanno presentato alla Camera dei deputati. Una proposta che afferma negando al tempo stesso quello che ha precedentemente affermato. Una proposta che, come se non bastasse, dà una libera interpretazione sul giustificato motivo che costituisce, invece, un principio giuridicamente ininterpretabile.



In Europa l’orientamento in materia è chiaro: Francia e Danimarca hanno preso una posizione netta. Eppure alcuni parlamentari italiani si cullano ancora tra le pieghe di un relativismo che avalla la segregazione e la sottomissione della donna, la sua palese discriminazione, in barba a quanto sancito dalla Convenzione su tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne adottata dalle Nazioni Unite nel 1979. Fanno finta di non vedere, o peggio non conoscono, l’articolo 1 del provvedimento adottato dall’Onu secondo il quale “l’espressione «discriminazione contro le donne» sta ad indicare ogni distinzione o limitazione basata sul sesso, che abbia l’effetto o lo scopo di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, indipendentemente dal loro stato matrimoniale e in condizioni di uguaglianza fra uomini e donne, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, culturale, civile, o in qualsiasi altro campo”. 

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E cosa rappresentano il burqa e il niqab se non un chiaro ed evidente tentativo di compromettere o annullare i diritti umani e le libertà fondamentali di queste donne?

 

Xenofobia è non tenere conto del risultato delle audizioni che si sono concluse alla Commissione Affari costituzionali di Montecitorio da cui emerge chiaramente, come affermato dai musulmani moderati e non, che burqa e niqab non hanno nessun giustificato motivo di appartenenza religiosa, ma rappresentano il risvolto più estremista di un bieco tribalismo medievale che non ha alcun rispetto per la parità e diritti delle donne.

 

Ciò che si discute in Italia oggi, è una norma che garantisce il più elementare rispetto dell’essere umano. Ho dialogato a lungo con le varie associazioni femminili della società civile francese e di altri Paesi europei per fornire spunti e consigli sul tema del divieto del burqa, perché la proposta che ho presentato al Parlamento è precedente a quella francese. Ad oggi la mia proposta ha l’appoggio del Pdl e dell’Udc, nonché del ministro delle Pari Opportunità, Mara Carfagna, che si è detta favorevole all’introduzione del provvedimento in Italia. Chiarendo tra l’altro che la giurisprudenza, negli ultimi anni, in deroga alla legge, ha giustificato l’uso di burqa e niqab per supposti e falsi motivi devozionali.  

 

Temo provvedimenti, come quello recentemente emanato in India, che intende negare la carta di identità a chi indossa tali indumenti: si rischierebbe di rinchiudere queste donne e lasciarle alla mercé di mariti, padri, fratelli padroni, negando loro il diritto all’esistenza come persone e come cittadine. Ha scritto bene Stefano Arditti su Il Tempo: noi siamo la nostra faccia. Il che significa rendersi riconoscibili. Perché è nel riconoscimento dell’altro da sé, nella sua visibilità che si fonda l’esistenza stessa di una persona.

 

L’uso del velo integrale in luoghi pubblici o aperti al pubblico è vietato già in Turchia e Tunisia. Oltre oceano anche in Georgia, Usa, ed in Quebec, Canada, è proibito. In Italia la battaglia fino a qualche anno fa era sul velo. Oggi si attiene al burqa. Dobbiamo renderci conto che l’estremismo avanza veloce. Molto veloce. Quanto dovremo ancora attendere perché finalmente la politica apra gli occhi e squarci questo velo di Maya?