Durante i suoi dieci anni di insegnamento al Liceo Berchet di Milano (1954-1964), don Luigi Giussani ebbe tra i suoi allievi anche Angelo Rizzoli, rampollo di una delle famiglie più in vista di Milano, nipote del fondatore dell’omonima casa editrice (Angelo era anche il nome di suo nonno) e figlio del presidente di quel Milan capace di portare per la prima volta in Italia la Coppa dei Campioni. Era appunto il 1957 quando Angelo Rizzoli (che nella sua vita divenne anche proprietario del Corriere della Sera) si iscrisse al Berchet e trovò poi come suo insegnante di religione Luigi Giussani, già presente da tre anni nel liceo milanese.



Dottor Rizzoli, cosa ricorda di quegli anni e del suo incontro con don Giussani?

Quando ero arrivato al Berchet lui c’era già da qualche anno. Sono rimasto colpito perché era un personaggio straordinario, con una personalità fortissima, soprattutto in confronto agli altri professori. Tenga anche conto che il Berchet di allora era la scuola più laicista di Milano (il partito radicale vinceva sempre le elezioni scolastiche), il liceo tradizionalmente del mondo ebraico (lo stesso preside del liceo era un ebreo).



E qual è stato l’impatto di don Giussani con un una realtà del genere?

C’era una parte laicista e radicale che lo ha profondamente contestato. Lo chiamavano “la bara volante”, per via del fatto che andava in bicicletta. Contestavano il suo linguaggio molto più “aggressivo”, molto più diretto di quello degli altri professori che alla fin fine si preoccupavano solo della loro lezioncina e non parlavano di quello che succedeva nel mondo, né del ruolo delle persone nel mondo. Si preoccupavano solo della paginetta scritta su cui poi interrogavano. Giussani invece parlava di altre cose e lo faceva con grande piglio.



Cosa l’ha colpita di Giussani?

Sono rimasto affascinato dalla sua vitalità, dal suo eloquio e dal suo modo di far capire che in quel momento la divisione della società tra liberalismo e marxismo doveva trovare una terza via che fosse il rispetto della libertà individuale, ma con una partecipazione alla vita comune, con l’invito alla solidarietà verso gli altri. Quello che poi trascinava di don Giussani era l’entusiasmo. Con lui  c’è stata una rivoluzione, perché con don Giussani si parlava di tutto. Per dei ragazzi ancora minorenni questa era una scoperta.

In cosa consisteva questa rivoluzione?

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Con lui in classe c’era un dialogo sulla vita, sulle cose “vive”, non sulle cose “morte” come poteva accadere con il professore di latino o con quello di matematica.

 

Com’era don Giussani come professore di religione, rispetto anche agli altri che ha avuto modo di incontrare nella sua vita?

 

Era molto più colto degli altri. Nelle sue lezioni non si parlava solo di testi sacri e preghiere come avveniva di solito nelle altre scuole. Lui parlava di filosofia. Citava a memoria Maritain, Teilhard de Chardin, Mounier e Rilke. Si parlava della filosofia per parlare della vita, di come ognuno di noi doveva porsi davanti alla vita, davanti a se stesso e davanti agli altri. Da una parte l’individuo con la sua libertà, dall’altra gli altri individui con le loro esigenze, con il loro bisogno di solidarietà. Quello di cui ci parlava non era né l’individualismo egoista, né il collettivismo statale che annullava l’individuo. Cercava una terza strada, quella della persona umana che è capace di difendere la propria libertà, ma anche di rapportarsi con gli altri.

 

Era questo il Giussani educatore? Ci racconti la sua esperienza diretta.

 

Prima di incontrarlo, in classe eravamo come dei carcerati che dovevano soltanto stare zitti, buoni e tranquilli. Con don Giussani invece potevamo parlare, chiedere. Lui stesso ci faceva delle domande, ci parlava del mondo. Noi gli ponevamo delle domande che ingenuamente credevamo lo avrebbero messo in difficoltà, ma non ci riuscivamo. C’era questa “sfida” e lui ha sempre accettato di mettersi sul nostro stesso piano, ci ha insegnato cosa fosse la libertà.

 

Dal punto di vista religioso, Giussani l’ha in qualche modo aiutata a capire di più il messaggio cristiano?

 

Tutte queste cose che ho detto e che lui ci raccontava sono parte della rivelazione di Cristo. Lui non ne parlava mai come di una filosofia, ma come di un’interpretazione di nostro Signore.

 

La vita non le ha risparmiato nulla: la malattia, le false accuse, il carcere e la perdita della sua azienda. Il messaggio di Giussani le è stato di aiuto per affrontare tutto questo?

 

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Mi ha aiutato sicuramente ad accettare tutto quello che ho ricevuto, comprese le ingiustizie, cercando sempre la strada per ritrovare giustizia, libertà e pace. Io non ho mai cercato la vendetta, che è un sentimento ignobile, ho sempre cercato di recuperare la mia libertà, la giustizia, la verità e la pace. Questi sono quattro elementi che mantengono in equilibrio la vita di un uomo.

 

A cinque anni dalla sua morte, secondo lei Giussani ha ancora qualcosa da dire a questo mondo?

 

Per chi lo vuole intendere, ha sicuramente qualcosa da dire. Continuo a pensare che il suo messaggio sia l’unico moderno e che Giussani stesso sia una figura di religioso moderno. Oggi si parla molto dei grandi santi della tradizione. Padre Pio, per esempio, è un santo arcaico, di una società arcaica, contadina. Giussani invece interpretava la Milano che stava passando dall’euforia dello sviluppo economico alla crisi del ’68 e dell’autunno caldo. Lui era capace di spiegare quel momento con le sue parole, col suo pensiero. E sempre come testimonianza di nostro Signore Gesù Cristo. Mentre tutti contestavano le strutture della tradizione, per prima la Chiesa cattolica, don Giussani fece una battaglia straordinaria contro l’anarchia sessantottina. Pertanto è un personaggio non facilmente dimenticabile.

 

Il suo messaggio può essere un aiuto per chi cerca di vivere la propria fede oggi?

 

Certo, penso sia un aiuto per vivere la propria fede e capire le ragioni della propria esistenza. Penso ancora che lui avesse ragione nel dire che le ragioni della propria esistenza sono nel difendere la propria libertà individuale, ma anche nel tutelare l’esistenza degli altri soggetti, soprattutto quando più deboli. Questo è un messaggio che ho avuto allora, che non dimentico oggi dopo oltre 50 anni e che non dimenticherò mai. Giussani era davvero una figura straordinaria. Sono passati infatti i tempi di quando Giovanni Paolo II gli diceva che era un senza patria. Don Giussani è pienamente cittadino della Chiesa, anzi è un campione di modernità della Chiesa cattolica.

 

(Lorenzo Torrisi)