Che cosa hanno in comune due preti così diversi e così poco clericali – e forse proprio per questo così influenti nella storia italiana – come don Sturzo e don Giussani? Lo stimolo a riflettere su un accostamento così inusuale mi viene dall’articolo del card. Scola apparso qualche settimana fa su Ilsussidiario.net.
Citando il primo Giussani, Scola richiama la necessità, per un qualunque esperienza umana, di essere in grado di assurgere a dignità culturale. Scriveva infatti il prete milanese che fin dall’inizio “mi apparve chiaro che una tradizione, o in genere un’esperienza umana, non possono sfidare la storia, non possono sussistere nel fluire del tempo, se non nella misura in cui giungono a esprimersi e a comunicarsi secondo modi che abbiano una dignità culturale”.
Ma questa dignità culturale – continua la riflessione del cardinale su Giussani – è impossibile “se non a partire dall’esperienza di un soggetto, personale e comunitario, ben identificato nei suoi tratti ideali ma inserito nella storia, che si proponga, con semplicità e senza complessi, all’uomo in forza delle sue ragioni intrinseche. Un simile soggetto non teme un confronto a tutto campo”.
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Proprio questa attenzione al concreto farsi della storia e alla responsabilità di trasformarla in una visione culturale e politica capace di parlare agli uomini di buona volontà di una data epoca storica costituisce, a mio parere, il sorprendente punto di contatto tra Giussani e Sturzo: che cosa ha fatto il prete siciliano se non cogliere “un’esperienza umana” – quella dell’Italia cattolico-sociale di inizio ‘900 – elevandola ad una dignità culturale tale da essere capace di comunicarsi all’intero Paese?
Un tale compito costituisce poi, per entrambi i preti, la sfida stessa con cui il cristianesimo è chiamato a misurarsi, incalzato com’è dal processo di secolarizzazione: evitando di attestarsi sulle posizioni difensive di chi mira semplicemente a difendersi da una modernità che avanzerebbe solo distruggendo il patrimonio cristiano, si tratta piuttosto di avere l’ardire di affrontare a viso aperto il tempo, rintracciando al suo interno le potenzialità che, già incarnate nella prassi, possano però aiutarci a trovarne una declinazione diversa. Nella convinzione che “nel cuore della realtà” è sempre possibile trovare le tracce di quell’annuncio che provoca la fede.
In questo senso, osserva Scola, “Giussani era realista, di un realismo che afferma l’esistenza e la conoscibilità del fondamento veritativo del reale e che conduce a un confronto a tutto campo… Se la persona di Cristo dà senso ad ogni persona e ad ogni cosa, non c’è nulla al mondo e nella nostra vita che possa vivere a sé, che possa evitare di essere legato invincibilmente a Lui. Quindi la vera dimensione culturale cristiana si attua nel confronto tra la verità della sua persona e la nostra vita in tutte le sue implicazioni”.
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E la stessa cosa si può ben dire per Sturzo, il quale – testardamente – ha dedicato anni della propria vita a conoscere la grande ricchezza dell’esperienza cattolica di inizio secolo. Nella convinzione che solo a partire da quella incarnazione sarebbe stato possibile ricostruire un’elaborazione culturale sufficientemente solida e radicata sulla quale poi basare anche la proposta politica dei cattolici per lo sviluppo dell’Italia. Non dunque un approccio dogmatico – che deduce da principi generali come deve andare il mondo – quanto l’umile immersione nella carne della vita, senza timore di sporcarsi le mani o, peggio, la testa.
E’ proprio questo il filo che lega Sturzo a Giussani e che mi sembra particolarmente prezioso per noi oggi, di fronte alla grave crisi nazionale e globale nella quale ci troviamo.
Nella sua rilettura, Scola compie un altro passaggio illuminante:“non si capirebbe Giussani al di fuori di concetti chiave pensati secondo la sensibilità moderna, quali quelli di esperienza, di libertà, di verità come evento, di conoscenza come strutturalmente connessa all’affezione, di essere come dono, di ‘soggetto’ come implicato nel dono stesso dell’essere”.
Ora, quello che mi colpisce è che queste sono esattamente le stesse categorie che la mia ricerca sociologica mi ha portato a considerare come costitutive del tempo che viviamo. Solo che tali categorie sono poste in una cornice che, invece di generare più umanità e libertà, finisce per distruggere e confiscare queste dimensioni cosi preziose dell’esistenza umana. E questo perché la secolarizzazione in corso tocca in profondità proprio queste categorie – le stesse che erano già state colte da don Giussani – manipolandole e strumentalizzandole.
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E’ questo il caso di quella configurazione nella quale viviamo – il “capitalismo tecno-nichilista” – la quale, per semplificare all’osso, lavora esattamente affettività ed evento, ma fa carta straccia di fede (ritenuta del tutto pleonastica) e ragione (ridotta a tecnica).
Sturzo e Giussani ci insegnano che solo rimettendo insieme tutte queste dimensioni – affettività, evento, ragione, fede – si può formare un impasto capace di trovare, nell’esperienza concreta della vita, la sua verità. Quando ciò non avviene o avviene in modo parziale, i modelli sociali che si vengono a costituire si rivelano fallimentari e insostenibili.
In questo modo, ci viene indicato un metodo con cui lavorare per trovare una via d’uscita dalla crisi profonda nella quale siamo finiti: mettersi in ascolto di quelle realtà diffuse che ancora esistono e che il capitalismo tecno-nichilista tende a marginalizzare e, alla fine, a distruggere e, ripartendo da lì, da questo ancoramento all’esperienza più positiva, provare a ridire una parola che possa incontrare in profondità chi vive in questo tempo, le sue paure ma anche le sue speranze.