Una conversazione de ilsussidiario.net col filosofo francese Fabrice Hadjadj su Benedetto XVI, la Chiesa, gli scandali. «Dato che il Verbo si è fatto carne, i cristiani non si riuniscono solo attorno al credo, ma anche attorno a un viso, a una persona contemporanea, messa nella storia, come Cristo in mezzo ai suoi discepoli». E sugli scandali: «Carrón ha ragione. Come fare per non ingolfarci in un atteggiamento negativo di vendetta o di rimorso? Il peccato imperdonabile è proprio entrare in un logica di non perdono».
Cosa rappresenta questo Papa per lei e quale contributo sta dando alla Chiesa?
Innanzitutto il Papato dipende da un articolo di fede: è la punta sottile del mistero dell’Incarnazione. Dato che il Verbo si è fatto carne, i cristiani non si riuniscono soltanto attorno al credo, ma anche attorno a un volto, a una persona contemporanea, messa nella storia, come Cristo in mezzo ai suoi discepoli. Così la fede non è astratta, ma incarnata. Come l’amore di Dio è inseparabile dall’amore del prossimo, il cammino verso il Dio che istruisce deve passare attraverso questo prossimo magistrale. Ma c’è ancora un’altra cosa: il Verbo, nel farsi carne, ha voluto rendersi vulnerabile.
Il mistero del Papa continua questo mistero di vulnerabilità della verità. Gli articoli di fede come tali non possono essere né feriti né uccisi, ma si può ferire o uccidere un Papa. Ed è necessaria questa possibilità per mostrare che la verità del cristianesimo non si trova in un sistema, ma in un rapporto libero, drammatico, con una persona.
E il contributo di Benedetto al nostro tempo?
Quanto al contributo di Benedetto XVI al nostro tempo, credo che lo si possa leggere nel manifesto del suo motto: “Collaboratore della Verità”. Certo, ogni Papa è per vocazione collaboratore della Verità, ma il Papa attuale lo è soprattutto per la sua chiarezza espositiva, la sua carità intellettuale e il suo desiderio di portare alla luce perfino le mancanze più oscure dei suoi confratelli nel sacerdozio.
Lei ha firmato un appello in difesa del Papa (“Appel à la vérité”) insieme a molti altri esponenti del mondo culturale francofono. Perché lo ha fatto? Non bastava la sua posizione personale?
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Questo appello potrebbe essere considerato un atto di lobbying, ma, in verità, quando si tratta della Chiesa il personale e il comunitario sono indissociabili. San Paolo non dice forse che formiamo un solo corpo? “Se un membro di questo corpo soffre, tutte le membra soffrono con lui; se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui”. È questo che volevo testimoniare firmando l’appello. Non solamente noi abbiamo compassione per le vittime, ma prendiamo su di noi anche il peccato dei nostri fratelli, e sosteniamo il Papa e i vescovi per cercare insieme a loro la pace nella giustizia. Il linciaggio mediatico è facile: nel parteciparvi, ciascuno può per un instante sentirsi puro, vedere il male solo negli altri, credersi sempre dalla parte giusta. La verità ci fa uscire da questa polarizzazione da cattivo western, costringe noi stessi a entrare nella bontà.
Nella sua lettera a Repubblica, Julián Carrón affronta la vicenda degli scandali in modo insolito, dicendo che «tutto questo è servito per mettere davanti ai nostri occhi la natura della nostra esigenza di giustizia. È senza confini». È infinito sia il desiderio del nostro cuore, sia l’esigenza di giustizia. Cosa pensa di questo approccio?
Julián Carrón va all’essenziale. Se si lascia da parte l’agitazione e la confusione di questi ultimi giorni, che non sono altro che una schiuma superficiale destinata a sparire, cosa resta di solido e reale? Il desiderio di giustizia. Esso solo può legittimare l’attuale inquietudine. Esso solo può forare lo schermo mediatico e volgerci verso ciò che più conta in tutta questa vicenda. Dicendo queste cose Carrón non pretende però di darci una soluzione chiavi in mano, come se l’orrore del male fosse un problema meccanico: egli ci coinvolge nel dramma e ci rimanda alla nostra responsabilità. La questione che pone è: quale giustizia di fronte all’irreversibile? Come non sprofondare in un atteggiamento negativo di vendetta o di rimorso, che ci rinchiude nel passato e che non apre a nessun futuro? Il peccato imperdonabile è proprio entrare in una logica di irremissibilità: è quello di una pseudo-giustizia, vendicativa, sterile, che invece di far rifluire la vita, ci rende complici delle tenebre e della morte. Si può certamente sterminare i cattivi, ma a cosa serve se la vita non ha alcun senso? L’abuso sessuale sui bambini è terribile. Ma l’abuso spirituale non lo è di meno. Ora, è un abuso spirituale che non cessiamo di perpetrare sui nostri bambini quello di offrire loro nient’altro che un mondo consumista, senza redenzione né comunione nella gioia. Un giorno saremo giudicati per questi abusi spirituali.
La risposta all’esigenza di giustizia – dice Carrón – essendo la nostra domanda infinita, può essere solo la Croce di Cristo. Anzi è solo essa che salva la nostra dimensione umana. Il mondo però continua a chiedere giustizia di fronte al male fatto e crede che questa sia una scappatoia. Lei è un filosofo. È possibile far vedere la pertinenza e la concretezza della posizione di Carrón da un punto di vista della riflessione filosofica?
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Pensare che la filosofia possa far vedere tutta la pertinenza della Croce è cadere nel razionalismo e non capire che il mistero della Croce è l’avvenimento di un incontro, non la deduzione di un sistema. Ma se la filosofia non può realizzare questo incontro, può almeno predisporci ad esso, e lo fa in questo caso mostrando i limiti di una giustizia strettamente umana. La giustizia umana non può che essere parziale e superficiale.
Parziale, perché quando pretende di essere totale, diventa totalitaria: non bisogna dimenticare che è proprio dei totalitarismi il pretendere di far scomparire per sempre il male partendo da una teoria umana. Superficiale, perché l’uomo non può sondare le viscere e i cuori e non può nemmeno essere sicuro della purezza delle sue stesse intenzioni.
Affinché il nostro desiderio infinito di giustizia possa essere colmato, occorre un giudice che adempia a queste tre condizioni: essere il signore della Storia; conoscere il segreto dei cuori; e operare per la riconciliazione e non per la distruzione. Ecco ciò che il filosofo può dimostrare e può aggiungere che questo giudice non può che essere un Dio salvatore.
Carrón denuncia il pericolo (o l’intenzione?) – attraverso gli attacchi – di separare Cristo dalla Chiesa: come può la Chiesa essere il luogo di Cristo, se è così indegna?
Un Cristo senza la Chiesa è assurdo quanto una testa senza corpo. Significa allo stesso tempo negare il principio e il fine della redenzione: l’incarnazione e la comunione. Il Verbo si è fatto carne, ha sposato l’umanità, l’ha radunata nel suo corpo mistico che è la Chiesa. Bisogna affermare, contro ogni tentazione spiritualistica, questo mistero di visibilità. Senza la Chiesa, che orienta e incarna la fede, è difficile non ridurre Dio a una nube senza forma, Gesù a un idolo domestico, la carità a un discorso umanitario, che non conosce la comunione personale e concreta.