“Mi sono sentita offesa come donna e come europea”, ha detto ieri Ursula von der Leyen riferendosi a quanto accaduto il 7 aprile scorso. C’è un aspetto centrale del “sofagate” su cui riflettere, al di là della trattenuta, ma comprensibile, reazione piccata della von der Leyen, che ha spostato l’attenzione mediatica sul piano della discriminazione sessista.
Difficile, infatti, accusare Erdogan di aver infranto la simmetria protocollare: di fronte a lui c’era il presidente del Consiglio degli Stati aderenti all’Unione e, di fronte al ministro degli Esteri turco, c’era proprio la presidente della Commissione. Al suo posto, magari, avrebbe potuto esserci l’Alto rappresentante degli affari esteri dell’Unione. L’Alto rappresentante, al pari dell’omologo prospiciente dignitario turco, non avrebbe probabilmente sfigurato nel fare da tappezzeria, evitando così l’imbarazzo di dover profferire parola su un’inesistente politica estera della Ue.
Che dire? Difficile immaginare un incontro al vertice nel quale, a fronte di un capo di Stato, si sieda una rappresentanza bicefala del vertice di un organismo internazionale. Un inusitato dialogo a tre, con Erdogan interloquente e interloquito, ora dall’uno, ora dall’altra. E non è certo sfuggita la malcelata soddisfazione del presidente turco nell’aver relegato la von der Leyen in pizzo sul divano. Ciò non toglie che il protocollo diplomatico formalmente sia stato rispettato.
Dopo il Trattato di Lisbona nel 2009, che ha introdotto il diritto di recesso degli Stati membri – chissà perché i padri fondatori non ci avevano pensato… – l’Unione Europea è, a tutti gli effetti, un’organizzazione di diritto internazionale, retta cioè da un accordo tra gli Stati aderenti, il cui vertice è formalmente rappresentato dal presidente del Consiglio degli stessi. Su questa base, il non troppo ricettivo Charles Michel non ha avuto remore ad accomodarsi da solo di fronte a Erdogan.
Già Henry Kissinger, il segretario di Stato americano ai tempi di Nixon, aveva i suoi problemi a trovare un interlocutore, quando chiedeva di sapere quale fosse il numero di telefono della Comunità europea. Oggi, probabilmente, non avrebbe dubbi a telefonare a Charles Michel.
Anche se volessimo glissare sul punto, è evidente che l’incidente di Istanbul ci ha fatto toccare con mano il precario status internazionale dell’Unione. E la discussione dovrebbe essere, semmai, sul come tirarla fuori dal confuso assetto intergovernativo in cui il Trattato di Lisbona l’ha precipitata: un’architettura barocca, un’Idra a più teste con la motilità oculare affetta da diplopia plurilaterale e paralizzata nei movimenti dai veti incrociati dei singoli Stati.
L’invocazione della von der Leyen alla pari dignità tra organi della Ue, sulla base degli articoli 15 e 17 del Tue, serve a poco per reclamare una poltrona per due negli incontri internazionali al vertice. Né vale molto l’appello buonista del presidente pro tempore del Parlamento europeo a che tutte le istituzioni europee procedano all’unisono.
Un primo passo, per uscire da questa defatigante configurazione policefala, potrebbe essere invece accogliere la proposta dell’elezione a suffragio universale del presidente del Consiglio europeo, avanzata nel 2014 da Wolfgang Schäuble, allora ministro tedesco delle Finanze e ora presidente del Bundestag.
L’investitura democratica diretta da parte di tutti i cittadini europei gli conferirebbe, nell’esercizio delle sue funzioni, una legittimazione internazionale che lo metterebbe al riparo dalle paralizzanti mediazioni intergovernative e al di sopra della straniante rotazione del semestre europeo, con i singoli governi degli Stati membri che si succedono, come nei cambi di guardaroba stagionali, alla presidenza del Consiglio dell’Unione.
Consiglio, si badi bene – e mi corre l’obbligo in chiusura di ricordarlo al lettore disattento o ignaro –, che è altra cosa dal Consiglio degli Stati membri, presieduto appunto dal malcapitato Michel.
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