Il caso delle soffiate su documenti fiscali segreti, noto come ‘caso Luxleaks’ (che tradotto in italiano starebbe a significare ‘fuga di notizie’), aveva avuto inizio tra il 2012 e il 2014, dando il via ad una massiccia inchiesta giornalistica, sfociata anche in un procedimento penale contro uno degli autori del fatto, il ‘whistleblower’ Raphael Halet.
Ex dipendente della società PricewaterhouseCoopers (Pwc), insieme al collega Antoine Delcour e ad un giornalista di France24, aveva lasciato trapelare dati riservati fiscali della società. In questo scenario si è inserita anche la Corte EDU che, lo scorso 14 febbraio si è pronunciata a favore dei divulgatori di informazioni fiscali segrete.
Nel corso degli anni il processo penale ha continuato a fare il suo corso, sfociando nella condanna in appello di Halet. Ne seguì il ricorso nel 2018 dello stesso alla Corte EDU, lamentando la violazione dell’art.10 CEDU riguardante la libertà di espressione.
Nel 2021 anche la Corte Europea sui diritti dell’uomo si era però espressa in senso negativo, non ravvisando alcuna violazione. Ma Halet non si arrese, presentando ricorso alla Grande Camera del Consiglio d’Europa. E qui è arrivata la svolta: la condanna di Halet viola l’art 10 CEDU e ha diritto ad un risarcimento di 15mila euro, oltre a 40mila euro di pagamento delle spese processuali.
La sentenza della Corte EDU fa leva sulla buona fede gli informatori
Nelle motivazioni rese dalla Corte EDU si può notare un allineamento con quanto stabilito già nel 2019 dal Consiglio dell’UE. La direttiva UE 2019/1937 aveva lo scopo di proteggere i whistleblowers, introducendo misure sulla prevenzione e il contrasto della corruzione all’interno dell’Unione europea, e predisponendo standard minimi di protezione degli informatori.
Su questa linea la Corte ha così ritenuto che divulgare informazioni fiscali segrete rientra nella libertà di espressione, facendo leva sulla buona fede dell’informatore, che avrebbe agito non a scopo di lucro contro l’ex datore di lavoro.
Rifacendosi poi alla precedente e simile sentenza Guya contro la Moldavia ha anche posto l’attenzione sulla possibilità di divulgare tali informazioni anche a mezzo media e a patto che i documenti resi pubblici siano caratterizzati da autenticità.
Da ultimo la Corte ha ritenuto la pena troppo severa e sproporzionata, lesiva quindi della tutela alla libertà d’espressione.