Turisti pecore, che sanno muoversi solo in gregge? Turisti stoici, disposti a sopportare gli intruppamenti e i costi gonfiati nei giorni clou? Turisti masochisti, che si ostinano a preferire sempre le solite mète, pur sapendo che così facendo il loro viaggio sarà quasi certamente un disastro, sacrificando ogni possibile e positiva “esperienza” sull’altare dell’esserci?<



Immaginando una media ponderata delle facoltà intellettive che consenta una pur minima capacità di ragionamento, si deve concludere che i fenomeni sopraddetti, in una parola l’overtourism, non si devono ascrivere alla generalizzata stupidità dei vacanzieri, quanto a cause esogene. Che proviamo a riassumere. Prima: la sostanziale uniformità del tempo libero, concentrato nei weekend, nelle vacanze estive zippate in quattro settimane o nei “ponti” legati ai calendari delle festività civili e religiose. Seconda: i calendari scolastici, che al di là di Natale, Pasqua ed eventuale settimana bianca, seguono un percorso assai poco frammentato (dovuto anche alle condizioni climatiche italiane), come invece avviene in altri Paesi europei. Terza: la fascinazione creata dalla celebrità televisiva o cinematografica o social di certe location. Quarta: la scarsa comunicazione che penalizza le destinazioni alternative. Quinta: la relativa facilità del travel, con il mondo intero ridotto a poche ore di viaggio low cost e con l’immediatezza dei collegamenti autostradali. Sesta: la cronica distrazione dei decisori e la totale mancanza di programmazione, di politiche turistiche adeguate, di disponibilità degli operatori. È forse quest’ultima causa la chiave da girare per tentare di passare oltre, dall’over al softourism, un turismo più sostenibile, rispettoso dell’ambiente, delle popolazioni e dei turisti stessi.



In questi giorni si festeggiano i numeri dell’ultimo ponte del 25 aprile, già immaginando un bis per quello dell’1 maggio (Coldiretti sostiene che almeno mezzo milione di italiani ha deciso di prolungare la vacanza trasformando il ponte della Liberazione – che ha fatto registrare numeri da record per il turismo in Italia con 9 milioni di connazionali in viaggio – in un lunghissimo viadotto fino alla festa dei lavoratori), ma si discute anche sul “disco orario pedonale” a Portofino (il turista può sostare in certe zone solo il tempo di un selfie), sul contingentamento dei posti letto in Alto Adige, sulla regolamentazione e i limiti agli affitti brevi di Venezia (una delle tre destinazioni italiane, con Roma e Firenze, indicate da un report internazionale quali più soggette ai problemi di gestione del turismo). Tutte misure che tendono a mitigare in qualche modo proprio quei numeri del ponte, per i quali si sta brindando. Ma allora, dov’è la ratio?



Scegliere comunque i fatturati, alimentare le economie dei territori, o salvaguardare quegli stessi territori e i relativi residenti dalle invasioni barbariche? È piuttosto evidente che non se ne può uscire se non con un compromesso, che è una brutta parola ma spesso è anche l’unica soluzione disponibile. L’obiettivo dovrebbe essere la qualità, di vita per abitanti e località, di servizi per i turisti. Ma come si fa? Solo con le soste a tempo, con i numeri chiusi, i ticket d’ingresso, i limiti alla ricettività? Certo che no, sono tutti antidolorifici sintomatici, che non risolvono la sindrome e presentano non poche controindicazioni, sia etiche che giuridiche (per legge, ad esempio, non è possibile limitare la libera circolazione). Potrebbero esserci misure più efficaci, a partire dai prezzi dinamici (già applicati ad esempio nelle prenotazioni dei trasporti aerei o ferroviari), con cifre inferiori applicate dagli operatori (pubblici e privati) nelle giornate e nei periodi meno frequentati. O le promozioni intensive non delle mète già per loro conto frequentate, ma di itinerari, percorsi, località alternative.

Si parla anche della destagionalizzazione, ma ancora non si fa abbastanza per spalmare iniziative ed eventi su calendari estesi, così come non si agevolano (magari anche fiscalmente) gli operatori a prolungare le aperture. E non si promuovono affatto gli incentivi per chi vorrebbe resistere nell’abitare e lavorare in territori che poco alla volta rischiano di trasformarsi in turisland, trasformando le prime case in alloggi a tempo e desertificando i centri di qualsiasi attività non direttamente collegata ai flussi turistici.

Sembra, insomma, che sia arrivato il tempo di varare uno slow tourism, che, al pari del movimento lento del food, sappia indirizzare i flussi su circuiti virtuosi, meno conosciuti ma altrettanto se non più interessanti, questi sì generatori di esperienze e nuove conoscenze che valgano la pena. Perché la scoperta di una bellezza inattesa regala sicuramente più soddisfazione di un selfie al Colosseo, con in mano un modellino di gondola-carillon con le note di “‘O sole mio”.

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