Dopo la Federal Reserve e la Bank of England, l’ultimo a parlare di helicopter money è stato il premier giapponese Shinzo Abe, intenzionato a premere sull’acceleratore per un piano di distribuzione cash direttamente ai cittadini, tanto che il ministero delle Finanze nipponico prevede di erogare 100mila yen a favore di ogni cittadino del Giappone, per un valore totale di quasi 13 trilioni di yen. In un frangente di sempre più grave crisi sistemica mondiale, legata alla pandemia da coronavirus e al conseguente lockdown imposto in molti paesi, l’unica area del mondo in cui non si prevede l’utilizzo dell’helicopter money è proprio l’Europa. Perché? Non sarebbe uno strumento utile monetizzare il debito? O ci sono altre soluzioni? Ne abbiamo parlato con Giuseppe Di Gaspare, ordinario di diritto dell’economia nell’Università Luiss di Roma.



Si sente parlare da più parti di helicopter money. A cosa può servire?

È una vecchia battuta dell’economista americano Friedman, Nobel e teorico del monetarismo. Letteralmente, significa trasferire moneta all’economia reale gettandola da un elicottero in volo. Rimedio estremo per saltare le banche quando i canali di finanziamento ortodossi non funzionano.



Insomma, un paradosso?

Trasformato in ricetta non funziona. Ne è venuto meno il presupposto sotteso, all’epoca costituito da un mercato nazionale chiuso. In un mercato protetto dalla barriera doganale, l’incremento dei consumi, provocato dall’elargizione monetaria a pioggia, riattiva produzione delle merci, investimenti, lavoro, occupazione e reddito.

Invece nell’economia globalizzata e interdipendente?

La domanda è sempre più spesso soddisfatta dai beni importati. Basti l’esempio delle mascherine e il richiamo alla Cina “fabbrica del mondo”. Il riferimento all’helicopter money oggi può servire al più come provocazione per spostare l’attenzione su canali diversi da quelli del credito. Canali peraltro già in atto, anche se non nell’Eurozona.



A quali canali si riferisce?

Principalmente a quello del Tesoro. Due giorni fa, da una corrispondenza da New York, abbiamo appreso che il programma di sussidi da parte del Tesoro Usa e approvato dal Congresso, inizialmente di circa 700 miliardi di dollari, del quale avevamo già parlato, ha raggiunto la cifra di 3 miliardi.

Una specie di helicopter money?

Non proprio, anzi meglio. Il trasferimento di moneta arriva all’economia reale in modo mirato. Sussidi ai cittadini americani accreditati direttamente nel conto corrente e graduati secondo la composizione del nucleo familiare.

Niente male. Sussidi, una finalità sociale, dunque, non macroeconomica di stimolo?

Rimaniamo ai fatti. Il trasferimento selettivo dei sussidi fa in modo che fasce di cittadini in difficoltà economiche non vengano marginalizzate. Risponde a un’esigenza anche di ordine pubblico. Una distribuzione così capillare di sussidi grava necessariamente sulla spesa pubblica. Congresso e Governo, al di là delle divisioni politiche, su questo si sono mossi all’unisono, finanziando la spesa in deficit con ricorso all’indebitamento.

Non è quello che in qualche modo si sta cercando di fare con il piano Sure della Ue?

Sì, certo, in parte è così. Sure sembra andare in questa direzione, anche se riguarda il finanziamento della cassa integrazione dei lavoratori salariati. Un trasferimento di 100 miliardi di euro ripartito pro quota fra gli Stati membri utile, perché libera risorse degli Stati nazionali da destinare ai cittadini socialmente più fragili e già privi di lavoro.

Siamo allora sulla strada giusta?

Sì, ma non del tutto. Dobbiamo guardare alle modalità di copertura del maggior debito pubblico che si va formando. È questo il punto cruciale della differenza.

Ci spieghi.

Dobbiamo ricordare il gioco di sponda tra Tesoro, banche americane e Fed. Nello specifico, i titoli del Tesoro americano emessi per finanziare il programma di sussidi arrivano poi attraverso giri alquanto sofisticati alla Fed, che li acquista restituendo liquidità prima alle banche e poi alle casse dello Stato, così che il giro viene chiuso e riattivato per nuove emissioni.

Giri sofisticati?

Sì, e in chiave operativa vanno attentamente analizzati. Ma, ridotto all’essenziale, è un gioco positivo a somma zero, di cui il Tesoro e la Fed sono i due terminali. In questo modo il gioco a circuito chiuso è ripetibile, come del resto sta già avvenendo. Non è così, però, per Sure, Cig e dintorni: la loro ripetizione crea altro debito, anche debito europeo, ma sempre debito che prima o poi va ripagato.

La Bce che fa, rimane a guardare? 

Non proprio, ma il giro di ritorno non è completo. La Bce acquista titoli del debito pubblico sul mercato secondario, dà un sollievo agli Stati membri, ma inscrive i titoli nel proprio bilancio e prima o poi deve cercare di rientrare da questo fardello. Il bilancio della Bce è appesantito, però, da un fardello più imbarazzante, costituito da titoli privati illiquidi (derivati e altri titoli finanziari) prodotti dalla speculazione finanziaria che la Bce acquista/ritira dalle banche per evitarne alla lunga il default.

La Fed non ha lo stesso problema. Cosa ne fa dei titoli che acquista?

Qualche giorno fa, una notizia flash ci ha informato che alcuni funzionari della Bce si trovavano a Bruxelles per discutere l’ipotesi di costituire una bad bank presso la Bce. È questa la risposta. La Fed la “bad bank” l’ha costituita da tempo e il fatto che anche la Bce si stia orientando in questa direzione è un segnale di estremo interesse.

La soluzione sarebbe la bad bank?  

Evidentemente la Bce ha in mente il modello americano della Federal deposit insurance corporation (Fdic), già molto attiva nella crisi del 2009. La Fdic opera nel perimetro della Fed, stoccando nel suo bilancio, ma fuori da quello della Banca centrale, “titoli caratterizzati da un particolare esoterismo”. Parole della Fed e non c’è perciò motivo per dubitarne. In questo modo i titoli lì parcheggiati rimangono in un cono d’ombra, in attesa di un futuro, improbabile, smaltimento. Nella sostanza, nella terminologia degli analisti finanziari, un’operazione “cash for trash”. Titoli spazzatura.

Allora la bad bank serve essenzialmente a stoccare titoli creati dalla speculazione finanziaria e divenuti illiquidi? 

Sì. Ma accanto a questi titoli potrebbero esser ritirati anche nuovi titoli cartolarizzati con crediti incagliati in bilancio alle banche, in particolare italiane, per finanziare l’attività economica. I cosiddetti Npl, che finora non sono accettati come collaterali in garanzia per trasferimenti di liquidità della Banca centrale. Whatever it takes anche per l’economia reale. Si dovrebbe chiedere di mettere il punto all’ordine del giorno del board della Bce quando si parla di bad bank.

E per i titoli del debito pubblico?

Con titoli privati illiquidi fuori bilancio, si apre uno spazio maggiore, nel bilancio della Bce, per i titoli del debito pubblico. È qui che bisogna battere, sia nel confronto in sede Ue sia in quello interno alla Bce. Due tavoli separati, ma che vanno affrontati in simultanea cercando alleati. La Spagna, per esempio, ha proposto titoli del debito pubblico europeo “perpetuo” per il Recovery fund, un’idea da approfondire. Non ci si può accontentare della generica unanimità di principio sulla costituzione del fondo. Sempre le news dei telegiornali ci informano che la Merkel ha chiaramente affermato che c’è disaccordo sulle modalità di finanziamento del Recovery fund. Se non c’è intesa sulle modalità di finanziamento, tutto è ancora in alto mare e nel mese di maggio il consiglio Ue dovrebbe decidere.

Si ritorna così al veto di Germania e Olanda sugli eurobond?

Sì, ma allargando lo scenario, si affronta il problema con altre argomentazioni e altre proposte. Se nella bad bank si vogliono parcheggiare titoli illiquidi acquisiti dalla Bce presso le banche di investimento, soprattutto tedesche e olandesi, qualcosa va negoziato in cambio. L’obiettivo, tutto politico, dovrebbe essere un punto di convergenza tra esigenze diverse, ma che vanno necessariamente contemperate e che siano reciprocamente comprensibili. Nella comune convinzione che ne va della stessa sopravvivenza del “progetto europeo”, per usare le parole dell’ex cancelliere tedesco Schroeder.

(Marco Tedesco)