Da un paio di giorni sono in corso “gli Stati generali dell’economia“, iniziativa di dubbia utilità che si è gradualmente estesa, man mano che la si preparava: dai due-tre giorni iniziali, al momento in cui viene redatta questa nota è calendarizzata per una settimana. Come sottolineato su questa testata l’8 giugno, gli obiettivi del programma che l’Italia dovrà presentare alle autorità europee per avere accesso ai finanziamenti del Next Generation UE sono già chiaramente indicati nelle raccomandazioni della Commissione europea di circa due settimane fa. Gli strumenti sono nei cassetti dei ministeri se si tratta di investimenti pubblici. Dipendono esclusivamente dalla volontà politica se si tratta di riforme. Inoltre, il Governo ha avuto documenti e proposte da schiere di consulenti, comitati tecnico-scientifici e task force, nonché dal suo consulente istituzionale (il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, Cnel): è difficile vedere in che modo un’altra assise (per di più di svariati giorni) possa contribuire a fare prendere decisioni che, senza dubbio, accontenteranno parte dell’elettorato, ma ne scontenteranno un’altra, mentre sinora l’Esecutivo ha cercato di assecondare un po’ tutti, limitando al massimo le scelte.



Quando sono stati annunciati “gli Stati generali dell’economia” si è malignato che si trattasse di un diversivo per guadagnare tempo al fine di giungere, all’interno della maggioranza, a compromessi ragionevoli proprio su quei temi in cui occorre arrivare a una sintesi politica tra posizioni, ove non opposte, almeno divergenti. Ora viene un altro dubbio, che “gli Stati generali” servano a celare che le prospettive di aiuti europei si stanno restringendo e, nell’ipotesi migliore, a incipriare il programma che l’Italia presenterà alle autorità europee nella speranza che con un po’ di belletto qualche miliardo in più si potrebbe riuscire a ottenere.



In effetti, il clamore attorno agli “Stati generali” e il diluvio d’interviste del presidente del Consiglio a proposito dell’evento a Villa Pamphili stanno distraendo l’opinione pubblica dal fatto che il fiume di denaro che due settimane si attendeva dal resto dell’Unione Europea si sta progressivamente restringendo. Tanto che potrebbe diventare un ruscello.

Andiamo con ordine. Non è almeno per il momento a rischio il supporto essenziale della Banca centrale europea tramite le nuove modalità di Quantitative easing di cui l’Italia è il principale beneficiario: ciò fa un po’ storcere il naso ad alcuni partner dell’unione monetaria, ma, nonostante la sentenza della Corte costituzionale tedesca del 5 maggio, almeno per diversi mesi (forse sino a tutto il 2021) su questa forma di sostegno pare che si possa contare. Non sono a repentaglio gli sportelli della Banca europea degli investimenti per le piccole e le medie aziende, sempre che ci sia un’adeguata platea di progetti “bancabili”. Non sono neanche in pericolo i fondi a valere sul Disaster Relief Fund (ora ribattezzato Coronavirus Response Fund): l’Italia è stato il primo Paese dell’Ue a presentare un’articolata domanda e si dovrebbe avere una decisione entro la fine di giugno.



Ci sono, invece, perplessità su quanto giungerà all’Italia dallo “strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un’emergenza” (Sure), giornalisticamente chiamato “la cassa integrazione europea”. A Bruxelles si leggono con una dose di preoccupazione i rapporti che giungono dall’Italia sulle difficoltà che l’Inps ha a erogare la cassa integrazione e con sgomento quelli sulle vicende dell’Anpal (l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro) con accuse di presunte appropriazioni indebite da parte del presidente, contrasti tra presidente e direttore generale, navigator allo sbaraglio e simili. Ci si augura che l’Italia o metta ordine o trovi altri veicoli per incanalare i fondi. Oppure cambi i responsabili, ambedue espressi dal Movimento 5 Stelle.

Più serie ancora le difficoltà che sta incontrando il Next Generation EU da cui l’Italia contava di ottenere 82 miliardi a fondo perduto e 91 a prestiti agevolati. Alle riunioni di Eurogruppo ed Ecofin, che si sono tenute la settimana scorsa, è parso chiaro che non solo i quattro Stati “frugali” (Austria, Danimarca, Olanda e Svezia), ma anche il gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) e le tre Repubbliche Baltiche vogliono modifiche drastiche al programma presentato dalla Commissione europea. I primi quattro ne chiedono una riduzione e la sua destinazione unicamente a prestiti, eliminando, quindi, le sovvenzioni. Gli altri sette protestano perché Paesi dal reddito pro capite significativamente maggiore del loro (in primo luogo, Italia e Spagna) otterrebbero fette importanti mentre a loro resterebbero le briciole.

Su tutto questo, poi, si inserisce la posizione della Germania. Il ministro delle Finanze della Repubblica Federale ha detto chiaramente che si dovrebbe tornare alla proposta iniziale Macron-Merkel di un fondo di 500 miliardi di euro (invece dei 750 del documento della Commissione). Ancora più importante un articolo di Hans Werner Sinn, ora “emerito” ma sempre il consigliere più ascoltato di Angela Merkel: diffuso in tutto il mondo tramite World Press, l’articolo non solo sostiene che la proposta iniziale è più che adeguata, ma pone l’accento sull’esigenza di una “condizionalità rigorosa”, con ristrutturazione del debito delle pubbliche amministrazioni per gli Stati i cui conti profumino di non sostenibilità. Tutto ciò vuol dire che, se va bene, dal Next Generation EU l’Italia otterrà non 171 miliardi ma 80-90 erogati in tranche nella misura in cui rimette a posto la propria economia e i debiti della propria Pubblica amministrazione.

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