Il comandante delle Quds Force, unità del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (Irgc) iraniane, il generale Qassem Soleimani, è stato ucciso venerdì 3 gennaio da un raid ordinato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, contro l’aeroporto internazionale della capitale irachena Baghdad, secondo quanto riferito dal Pentagono e dalla Casa Bianca. Soleimani, 62 anni, non solo aveva coordinato le operazioni extraterritoriali iraniane in particolare in Iraq, Siria, Libano e Yemen, ma aveva in particolare contribuito in modo decisivo a sostenere il presidente siriano al Assad. Inoltre, durante la guerra in Iraq, Soleimani – servendosi abilmente delle Forze di mobilitazione popolare, unità paramilitari sciite appoggiate proprio dall’Iran – aveva dato un contributo militare di grande rilievo nel fermare il radicamento dell’Isis in Iraq.
L’operazione americana, che rappresenta un indubbio successo sotto il profilo dell’intelligence, è stata posta in essere grazie all’uso di un drone MQ-9 Reaper che ha anche eliminato il generale delle milizie irachene Abu Mahdi al-Muhandis, vice comandante delle Forze di mobilitazione popolare, il generale Hussein Jaafari Naya, il colonnello Shahroud Muzaffari Niya, il maggiore Hadi Tarmi e il capitano Waheed Zamanian.
Sotto il profilo politico-strategico, l’operazione militare è stata attuata a scopo preventivo, per sventare operazioni offensive iraniane contro funzionari americani come indicato dal New York Times, e dissuasivo. Vediamo di spiegare cosa significa esattamente dissuasivo. Al di là delle comprensibili e scontate reazioni di condanna da parte del leader supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, e del Presidente iraniano, Hassan Rouhani, l’operazione attuata dagli Stati Uniti deve essere contestualizzata sul piano militare in primo luogo all’interno di una più ampia operazione di ritorsione in stile israeliano determinata sia da quella del 27 dicembre, in cui un attacco missilistico è stato lanciato contro una base militare irachena cagionando la morte di un civile americano, sia a causa delle violente proteste del 31 dicembre presso l’ambasciata statunitense a Baghdad, situata nella cosiddetta Green Zone, coordinate dalle Brigate di Hezbollah e dalle Forze di mobilitazione popolare, proteste volte a chiedere il ritiro delle forze statunitensi dall’Iraq. Non va dimenticato che il 13 dicembre scorso Mike Pompeo aveva avvertito Teheran che qualsiasi azione offensiva nei confronti gli Stati Uniti avrebbe ricevuto una risposta adeguata.
In secondo luogo, sotto il profilo della strategia globale posta in essere da Trump, questa operazione militare risulta essere pienamente coerente con l’obiettivo di contrastare in modo ampio, sistematico e capillare la presenza sciita in Iran, Iraq, Siria, Libano e Yemen.
In terzo luogo, l’operazione si presta a consolidare il suo consenso interno e ad allontanare lo spettro della messa in stato di accusa da parte del Congresso. D’altronde l’uso della politica estera come strumento per rafforzare il consenso al livello di politica interna costituisce non l’eccezione ma una costante a livello storico.
In quarto luogo, tutto ciò non farà altro che consolidare la partnership militare degli Usa con l’Arabia Saudita e Israele, i cui servizi di sicurezza hanno certamente svolto un ruolo di rilievo nell’individuazione di Soleimani.
Fra gli scenari possibili, da escludere vi è certamente l’invasione militare americana: un’ipotesi determinata dalla natura geografica dell’Iran.
Sebbene gli Usa abbiano infrastrutture militari in 14 Paesi e cioè in Egitto, Israele, Libano, Siria, Turchia, Giordania, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Yemen, Oman, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Bahrein, l’Iran, oltre ad avere un’estensione di 1.684.000 chilometri quadrati, è una fortezza naturale: pensiamo ad esempio all’uso strategico che Teheran farebbe dei Monti Zagros, che dividono l’Iran dalla Turchia, e un’eventuale operazione terrestre proveniente dall’Afghanistan implicherebbe non solo mesi di pianificazione, ma il dispiegamento di una forza terrestre di almeno 300mila soldati. Un’operazione che andrebbe autorizzata dal Congresso, il quale sta ponendo in essere un procedimento di messa in stato di accusa proprio di Trump. Inoltre, sarebbe necessaria da parte dell’Iran e/o dei suoi alleati un’azione terroristica analoga a quella dell’11 settembre per conseguire una coesione politica necessaria per un intervento di queste proporzioni.
Quanto a un intervento nucleare limitato da parte degli Stati Uniti, questo avrebbe delle conseguenze ancora più imprevedibili sul piano internazionale, poiché non soltanto determinerebbe una condanna unanime da parte di tutte le istituzioni internazionali, ma soprattutto determinerebbe una reazione anche di natura militare da parte della Russia.
A parte gli scenari possibili da parte americana, non c’è dubbio che in primo luogo quest’offensiva statunitense porterà a un aumento della conflittualità da parte sia degli alleati dell’Iran nei confronti di Israele – stiamo naturalmente alludendo a Hezbollah -, sia a un ulteriore incremento dell’instabilità in Iraq.
In secondo luogo, il sostegno militare e di intelligence fornito dall’Iran agli Houthi, attori centrali nel conflitto yemenita, potrebbe determinare una risposta rapida e diretta, stando alle dichiarazioni di Mohammed Ali al-Houthi, capo del Comitato supremo rivoluzionario Houthi, cioè una ritorsione militare.
In terzo luogo, i rapporti tra Cina e Usa potrebbero subire un ulteriore peggioramento, dal momento che proprio la Cina sostiene l’Iran nel contesto della Nuova Via della Seta.
In quarto luogo, l’Iran, come già avevamo ipotizzato lo scorso anno, potrebbe mettere in campo il tentativo di utilizzare lo Stretto di Hormuz come strumento di deterrenza militare.
In quinto luogo, l’Iran potrebbe attuare operazione terroristiche ai danni delle basi militari americane in Qatar e Bahrein.
In sesto luogo, questa azione militare da un lato aumenterà in modo rilevante la destabilizzazione in Medio Oriente e dall’altro certamente rafforzerà il ruolo politico-religioso sciita a livello globale.