Renata ha 93 anni e vive sola in un quartiere periferico a Milano. Ogni tanto vado a trovarla e le piace chiacchierare, è di una lucidità invidiabile e di una positività che riempie il cuore. Legge molto, e adora i libri “gialli”; non usa gli occhiali, ma una lente di ingrandimento, perché le è più comodo, dice; a me viene il dubbio che non possa permettersi l’acquisto di un paio di occhiali.



Da poco ha compiuto gli anni e allora ho chiesto in ufficio ai miei colleghi se avevano libri già letti che potevano regalarmi da donare a lei; ne ho ricevuti più di venti e glieli ho portati, con un dolcetto e un biglietto di auguri. Una bambina dagli occhi lucidi e felici: “Ma quanto avrai speso?”. E ancora: “Che bello, ne ho per tutto l’anno, non ne ho più comprati, perché con la mia pensione ormai non posso più permettermelo, aspettavo la quattordicesima”.



Quando le ho detto che non mi erano costati nulla, ma che erano stati un gesto semplice di amore nei suoi confronti da parte dei miei colleghi continuava a dirmi: “Domani ringraziali, ma grazie anche a te”, accarezzando uno per uno i libri, quasi a non volerli sciupare, e leggendo ad alta voce i titoli, ad ogni lettura sorrisi e sospiri di attesa per la curiosità di conoscere il loro contenuto.

Una volta alla settimana un’associazione di volontariato la passa a prendere per portarla nella loro sede a fare “laboratorio creativo” e allora mi fa vedere le sue opere: palle di Natale, origami, lavori di cartapesta. Ed è tutta contenta e gelosa dei suoi manufatti, aspetta il martedì per poter vivere la sua “ora d’aria”.



A volte un’altra associazione manda una ragazza che sta facendo tirocinio per farle un po’ di compagnia, se il tempo lo permette la porta a fare un giretto al parco anche se fatica a camminare, altrimenti quattro chiacchiere anche con lei: “È così carina, ma lei è giovane, certe cose non posso mica dirgliele”; anche se in realtà dovrebbe essere un complimento, mi sta dando della “vintage”, ma sorrido e faccio finta di nulla.

Da due settimane Renata è a casa sola, le portano giusto la spesa per mangiare, tutte le sere si prepara un piatto di pastasciutta, perché “la pastina è roba da vecchietti senza denti”.

Purtroppo anch’io non sono potuta andare però… Sì, c’è un però. Il welfare ai tempi del coronavirus ha permesso di creare, o meglio ricreare, nuovi modi di fare relazione, si è scoperto che il proprio telefono non serve solo per i social o i messaggini, ma -udite, udite – può anche servire per telefonare.

Ho chiamato Renata, le ho spiegato i motivi per cui non posso andare a trovarla, ha capito benissimo, le ho detto che comunque se le faceva piacere potevamo chiacchierare al telefono. Non l’avessi mai fatto… quasi un’ora a sentire tutto quello che aveva da dire, un fiume in piena, le sue preoccupazioni per i giovani, per quello che sta accadendo, per l’economia, una chiara analisi di una donna attenta al quotidiano. Ha concluso dicendomi: “Mi raccomando, stai attenta, ma ricordati che bisogna continuare a vivere, io ho vissuto la guerra e lo so bene, si supera tutto e ce la faremo anche questa volta”.

Quindi ciascuno di noi può fare tanto, chi non conosce una persona sola o un ammalato a cui fare una telefonata? E allora cosa aspettate? E’ un gesto semplice, e come dice Civil Week (Forum del Terzo settore e Csv di Milano, Fondazioni di comunità del Milanese), «Una telefonata vale come un abbraccio». È il titolo della campagna social lanciata dal Comitato promotore della #CivilWeek. Il senso? Anche con il coronavirus non dobbiamo dimenticarci della solidarietà. Sappiamo bene che nel tempo del coronavirus saranno più isolati proprio i più bisognosi: e una telefonata, appunto, può valere come un abbraccio.

Adesso vi saluto, devo andare a telefonare a Renata, mi aspetta.

@RossFav

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