Il 18 agosto scorso, inaugurando il Meeting di Rimini, Mario Draghi ha distinto tra un “debito buono”, destinato a finanziare investimenti produttivi, e un “debito cattivo” utilizzato per fini improduttivi. Il primo è sostenibile, il secondo no. La pandemia, oltre ad abbattere la produzione e a innalzare la disoccupazione, ha fatto esplodere il debito pubblico di tanti Paesi, a cominciare dall’Italia. Il rapporto tra debito e Pil, che in base ai parametri di Maastricht avrebbe dovuto essere al 60%, oggi raggiunge quasi la vetta del 160%. Qualcuno potrebbe pensare, ed effettivamente pensa, che non vi sia un limite invalicabile alla sostenibilità del debito pubblico: in fondo il Giappone viaggia intorno al 240%.



Occorre preliminarmente sgombrare il terreno da un possibile equivoco. Quando si parla di sostenibilità non si intende dire che occorre rimettere o rimborsare l’intero debito: non è mai successo né mai accadrà, anche perché è tecnicamente impossibile: l’Italia produce annualmente una ricchezza (un reddito) di circa 1.700 miliardi di euro e dovrebbe restituire un debito complessivo di circa 2.400 miliardi di euro. Rimborsare a chi, poi? Prevalentemente agli italiani stessi che detengono gran parte dei titoli emessi. Il problema reale della sostenibilità è il rinnovo del debito e cioè il fatto che i risparmiatori (vecchi e nuovi) continuino ad acquistare i titoli emessi. Questo dipende essenzialmente dalla fiducia che essi hanno nella capacità di un Paese (l’Italia) di continuare a pagare gli interessi promessi e, se e quando richiesto, a restituire il capitale prestato.



Quando viene meno la fiducia dei creditori? Ovvero, in positivo, quali sono le condizioni per rendere sostenibile il debito pubblico italiano? Per cercare di rispondere vedremo, primo, alcune essenziali cifre sul debito pubblico, secondo, le principali cause e conseguenze del debito, terzo, due contrapposti e impraticabili rimedi.

Partiamo da alcune semplici (e note) definizioni. Il deficit (o disavanzo) pubblico è la differenza negativa tra entrate e uscite dello Stato registrate in un anno finanziario. Le entrate comprendono le imposte, le tasse e altri proventi, le uscite la spesa sanitaria, previdenziale, militare e altre voci. Il saldo, se negativo, rappresenta il deficit, se positivo il surplus o avanzo. Una delle voci di spesa importanti è il pagamento degli interessi sul debito. Se, dal totale delle uscite, togliamo la voce interessi otteniamo il saldo primario che, di nuovo, può presentare un avanzo o un disavanzo. Questo indicatore, a cui si fa spesso riferimento, mostra se il bilancio dello Stato, senza gli interessi e cioè senza oneri imputabili a scelte compiute nel passato, sarebbe in attivo o in passivo.



Il debito pubblico è (semplicemente) la somma dei disavanzi accumulati nel tempo. Il deficit è dunque una grandezza flusso, riferita a un intervallo di tempo (di solito un anno) mentre il debito è una grandezza stock, che misura il totale degli indebitamenti in un momento di tempo (di solito alla fine di un anno). Più ancora che i valori assoluti, di deficit e debito, contano i rapporti percentuali rispetto al Prodotto interno lordo (Pil), che misura, in modo approssimato, il reddito nazionale. Per un povero, un debito di 10.000 euro sarebbe un’enormità mentre per un ricco sarebbe irrilevante. Lo stesso vale per un Paese: per capire la reale entità del passivo, occorre rapportare deficit e debito al Pil (si dovrebbe anche tener conto del patrimonio, e cioè di una grandezza stock, ma di solito si trascura per la aleatorietà delle stime). A questo punto possiamo indicare le cifre essenziali, con l’avvertenza che non sono quasi mai definitive perché vi sono continue revisioni delle statistiche ufficiali.

Ricordiamo anche che nel Trattato di Maastricht e nel successivo Patto di Stabilità e Crescita, sospeso, ma non cancellato, subito dopo lo scoppio della pandemia, erano previsti due valori di riferimento della finanza pubblica: il rapporto deficit/Pil non doveva essere superiore al 3% e il rapporto debito/Pil non superiore al 60%. La ragione sostanziale era che una convergenza macroeconomica tra i Paesi membri della costituenda Unione Economica e Monetaria veniva considerata – ed è considerata (la convergenza) – una condizione fondamentale per poter gestire una moneta unica. Vediamo dunque le cifre essenziali.

Nella storia dell’Italia unita, il rapporto debito/Pil ha raggiunto l’apice, oltre la soglia del 100%, in quattro momenti particolari: nel 1897, dopo la crisi economica di fine Ottocento, il 117%, nel 1920, dopo la fine della Prima guerra mondiale, il 160%, nel 1943, dopo l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, il 108% e nel 1992, l’anno della firma del Trattato di Maastricht, il 105,5%. Nei primi tre casi, il Paese è riuscito a tornare sotto il livello di guardia del 100%: per esempio, nel 1968 il rapporto debito/Pil era 40,7% e nel 1981 si manteneva ancora al di sotto del 60%. Nell’ultimo caso no, siamo rimasti abbondantemente sopra quota 100, fino a sfiorare il 135% nel 2019 e il 160% oggi.

In valori assoluti, nel 2019, il debito pubblico è stato pari a 2.409 miliardi di euro circa e il Pil a circa 1.787 miliardi con un rapporto percentuale pari al 134,8%. Il debito viene finanziato con l’emissione di titoli a breve, media e lunga scadenza. Ogni anno il ministero del Tesoro emette, e colloca attraverso aste pubbliche, titoli per un valore di circa 400 miliardi di euro. I titoli sono posseduti, per circa due terzi, da operatori italiani e per la restante parte da operatori internazionali.

Il rapporto deficit/Pil mostra un andamento migliore: nel 1992 era intorno al 10% (nettamente al di sopra del 3% previsto dagli accordi di Maastricht), nel 1998, l’anno dell’ammissione dell’Italia nell’Unione Economica e Monetaria, era sceso al 2,9% circa, nel 2007 si era ulteriormente ridotto all’1,5% e nel 2019, l’anno pre-Covid, era ancora all’1,6%. Oggi ha superato il 10%.

L’Italia è stato l’unico Paese in Europa a presentare un saldo primario positivo per 22 su 23 esercizi finanziari nel periodo compreso tra il 1995 e il 2017. Al netto degli interessi passivi, i bilanci pubblici sono stati cioè in attivo. Ma gli interessi pesano (oggi ammontano a circa 65 miliardi di euro l’anno) trasformando il virtuale attivo in un reale passivo di bilancio che, anno dopo anno, ha alimentato, ingrossandolo, il debito pubblico. In breve, i due principali indicatori di finanza pubblica, il rapporto debito/Pil e il rapporto deficit/Pil, assumono in Italia valori preoccupanti che ripropongono l’irrisolta questione della sostenibilità del debito pubblico.

Il rapporto debito/Pil aumenta (semplicemente) quando il numeratore cresce più del denominatore. L’incremento del debito, come abbiamo visto, è il deficit, che si compone di due addendi: il saldo primario (la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito) e gli interessi sul debito. Il saldo primario è stato in Italia positivo a partire dai primi anni Novanta, mentre il livello sia delle entrate che delle uscite pubbliche (al netto degli interessi sul debito) è stato in linea con la media europea. Dunque, il debito (il numeratore) non è aumentato per colpa del saldo primario, che registra anzi un avanzo, ma a causa del secondo addendo, la spesa per interessi, che risulta superiore di due punti percentuali alla media europea, anche a causa dei ricorrenti spread.

A fronte di un numeratore che sale, si registra un denominatore (il Pil) che, da diversi anni, sale meno o scende. Il risultato, matematico, è il rialzo del rapporto tra debito e Pil e (in alcune fasi) tra deficit e Pil. Certo, si dovrebbe tener conto di altri fattori, a cominciare dall’enorme evasione fiscale che limita le entrate pubbliche, ma allora dovremmo valutare anche l’impatto negativo che un aumento della pressione tributaria, in assenza di una generale riforma del fisco, potrebbe avere su consumi e investimenti e quindi sul livello del reddito nazionale.

Le conseguenze negative del debito pubblico sono soprattutto due. Quando lo Stato emette titoli per finanziare lo stock di debito sottrae quel risparmio alle imprese. In questo caso, si dice (ma il ragionamento è più sofisticato) che la spesa pubblica “spiazza” gli investimenti privati. Nell’ipotesi (implicita) che la spesa pubblica sia meno produttiva degli investimenti privati, il debito pubblico danneggia l’economia nazionale. La seconda conseguenza negativa è che, nel bilancio dello Stato, l’aumento della spesa per interessi sottrae risorse ad altri impieghi. Nell’ipotesi (anche questa implicita) che le spese pubbliche sacrificate siano più utili della rendita creata dai titoli a beneficio delle famiglie, il debito danneggia ulteriormente l’economia nazionale. In breve, le principali cause del peggioramento degli indicatori di finanza pubblica riguardano l’alto costo del debito e il basso tasso di crescita dell’economia mentre le principali conseguenze si riferiscono all’utilizzo, più o meno produttivo, del risparmio nazionale.

Il dibattito scientifico sulle politiche di risanamento del bilancio statale prosegue in Italia da decenni con l’avvicendarsi di autorevoli economisti. Il dibattito politico è stato movimentato da recenti e inedite proposte. Semplificando molto, e solo per accennare a due possibili strategie alternative, possiamo dire che alcuni guardano alla progressiva riduzione di deficit e debito (il numeratore) mentre altri prediligono terapie d’urto volte ad accrescere il Pil (il denominatore).

Una linea di pensiero, emersa prima della pandemia, si richiama alla cosiddetta dottrina dell’austerità espansiva: l’idea è quella di ridurre la spesa pubblica improduttiva per abbassare parallelamente la pressione tributaria e stimolare gli investimenti privati. Insomma, meno spesa pubblica e più investimenti privati, nell’esplicita ipotesi che i secondi siano più produttivi della prima.

Una proposta alternativa è stata recentemente avanzata dalla Lega e potrebbe essere denominata di “espansione sregolata”: l’idea è quella di finanziare la spesa pubblica con un’emissione straordinaria di titoli pubblici a condizioni (rendimenti) vantaggiosi da riservare a residenti italiani che, come le ultime aste dimostrano, sembrano propensi ad acquistare titoli del debito pubblico. Il Governo verrebbe così a disporre di ingenti risorse, che potrebbe utilizzare per finanziare sia investimenti pubblici che sussidi privati, senza dover sostenere un onere particolarmente gravoso dal momento che gli interessi sul debito sarebbero erogati alle famiglie italiane che vedrebbero così crescere il loro reddito disponibile.

Le due proposte sono, a mio giudizio, impraticabili. La prima a causa dell’impossibilità di tagliare la spesa pubblica in un momento di profonda recessione e in presenza di un blocco sia dei consumi che degli investimenti privati. Anziché meno spesa pubblica e più investimenti, si avrebbe un crollo generalizzato della domanda aggregata e quindi del reddito e dell’occupazione. La seconda proposta, al di là delle difficoltà tecniche evidenziate da vari commentatori, provocherebbe un ulteriore aumento sia della spesa per interessi, sia del deficit e del debito pubblico. È vero che il Governo pagherebbe gli interessi sul debito alle famiglie italiane, ma la maggiore spesa andrebbe comunque a discapito di altri impieghi, probabilmente di carattere sociale, e dovrebbe essere coperta, almeno in parte, con maggiori imposte. Si avrebbe così il paradosso di soggetti, magari poveri, che non possedendo titoli pubblici dovrebbero pagare alti rendimenti a soggetti, magari ricchi, possessori di Bot. Il paradosso potrebbe essere evitato solo innalzando ulteriormente i livelli di indebitamento pubblico incuranti delle regole europee che saranno, prima o poi, reintrodotte (in questo senso ho definito la proposta della Lega “sregolata”).

Le due proposte hanno però un fondamento di verità. La prima quando invita a monitorare i livelli di indebitamento e la composizione della domanda aggregata: ridurre la spesa per interessi e stimolare gli investimenti restano condivisibili obiettivi di politica economica. La seconda quando immagina di poter sbloccare e utilizzare l’enorme risparmio delle famiglie italiane anche per promuovere la crescita economica del Paese.

Ma esiste forse una terza via migliore. Il debito pubblico è sostenibile, abbiamo detto, se i risparmiatori, vecchi e nuovi, nazionali e internazionali, conservano la fiducia verso lo Stato emittente. Non esiste una soglia limite di sostenibilità: potrebbe essere il 60% di Maastricht o il 240% del Giappone. Il punto di non ritorno della sostenibilità è la perdita di fiducia dei sottoscrittori, che può manifestarsi al 60% come al 240%. I sottoscrittori cominciano a dubitare della solidità di uno Stato quando il rapporto tra debito e Pil inizia ad aumentare soprattutto perché, a fronte di un numeratore che aumenta (il debito), il denominatore (il Pil) si riduce o resta fermo. Allora si interrogano sulle prospettive future di quel Paese e sull’uso improprio delle pubbliche risorse.

È il caso dell’Italia. Il problema non è tanto il debito che aumenta, soprattutto in questi mesi di emergenza sanitaria ed economica (è inevitabile e giusto che sia così) e non è neppure il reddito nazionale che inevitabilmente crolla. Il problema vero, strutturale, è che il Pil potenziale dell’Italia, e cioè il massimo tasso di crescita possibile dell’economia, è da anni inferiore all’1%. Questo vuol dire che, a parità di ogni altra condizione e cioè in assenza di interventi strutturali, il Paese impiegherà alcuni anni per tornare ai livelli pre-crisi e poi potrà crescere al massimo all’1% annuo. A quel punto, il debito potrebbe diventare davvero insostenibile.

Può sembrare un luogo comune, ma nella grande crisi che stiamo attraversando si nasconde un’inedita e grande opportunità di sviluppo. Nei mesi scorsi si sono drasticamente ridotti consumi, investimenti ed esportazioni ed è fortemente aumentata la propensione al risparmio. Dati recenti mostrano che tra fine 2019 e luglio 2020 i depositi sui conti correnti delle banche italiane sono aumentati di oltre 36 miliardi raggiungendo la cifra complessiva di 1.136 miliardi. È, almeno in parte, il classico effetto dell’incertezza, magistralmente spiegato da Keynes. Quando domina l’incertezza, anche coloro che sono in condizione di spendere non lo fanno: famiglie e imprese depositano nelle banche fondi originariamente destinati a consumi e investimenti. Nel circuito del reddito si crea allora una falla: una parte del reddito disponibile non viene né consumata, né investita ma, di fatto, tesaurizzata. L’aumento del risparmio, in questo caso, comprime la domanda aggregata e con essa la produzione e l’occupazione. In questo caso, tipicamente keynesiano, il Governo può e deve intervenire in sostituzione e in supporto dei privati. Il risparmio giacente nelle banche non è sottratto ai privati perché le famiglie non vogliono aumentare i consumi e le imprese non sono in condizioni di effettuare nuovi investimenti. La spesa pubblica non “spiazza” (crowding out) la spesa privata, ma semmai la “traina” (crowding in) compensando la flessione delle altre componenti della domanda aggregata. Il Governo dovrebbe sbloccare quel risparmio inoperoso indirizzandolo verso investimenti pubblici produttivi.

Ecco allora la mia proposta: il Governo implementi finalmente il Piano di Rilancio dell’economia italiana a cui sta lavorando da mesi indicando le grandi opere infrastrutturali necessarie al Paese e il relativo fabbisogno finanziario, attinga a tutte le risorse europee disponibili e, per la parte restante, predisponga un’asta speciale di titoli di Stato finalizzati al finanziamento di quello stesso Piano. Le risorse raccolte nei mercati finanziari, unitamente ai miliardi dell’Unione europea, dovrebbero essere utilizzate per finanziare un unico e organico Recovery Plan dell’Italia finalizzato a uscire dalla crisi, ma anche a innalzare il potenziale di crescita dell’economia nazionale che deve potersi avvicinare al 2% annuo.

L’Europa, come’è noto, ha stanziato circa 209 miliardi per l’Italia, una parte come contributi a fondo perduto (grants) e una parte come prestiti agevolati (loans). I prestiti dovranno essere restituiti in trent’anni, tra il 2028 e il 2058. L’auspicio è che si trovi una forma per mutualizzare e cioè condividere il debito a livello comunitario senza far ricadere sugli Stati membri l’onere della restituzione. Il rischio, infatti, è che un Paese come l’Italia possa ritrovarsi nei prossimi anni con un livello di indebitamento eccessivo rispetto al reddito nazionale, effettivo e potenziale. Per preservare la fiducia dei risparmiatori, sarebbe invece auspicabile poter gradualmente ridurre il rapporto tra indebitamento e reddito nazionale.

In conclusione, il debito pubblico è sostenibile quando viene utilizzato anche per finanziare investimenti che generano un reddito superiore all’onere del debito stesso. Quando, cioè, è “buono” nel senso di Mario Draghi, ma anche di Ezio Vanoni, il Ministro della prima riforma fiscale del dopoguerra che, in un discorso pronunciato al Senato della Repubblica il 27 agosto 1953, disse: “Un disavanzo che non fosse investito in modo da produrre un reddito superiore all’ammontare degli interessi sul corrispondente debito pubblico non potrebbe essere considerato accettabile dal punto di vista strettamente economico”.