Si avvicina il voto di queste elezioni europee. Carlo Buttaroni, politologo e sondaggista, presidente di Tecnè, ha numeri freschi sott’occhio, ma ovviamente non può citarli. Abbiamo cercato di interpretarli, a cominciare dalla percezione del voto negli elettori. È stato Salvini a parlare del voto europeo come di un “referendum tra la vita e la morte, tra passato e futuro, tra Europa libera e stato islamico basato su precarietà e paura”. Di Maio gli ha ricordato che chi vuole i referendum li perde, vedi Renzi. Dimenticando – si fa per dire – che in realtà c’è un altro referendum, non dichiarato, che vede schierato lo stesso Di Maio: quello sul suo alleato-avversario di governo Salvini. “È così – conferma Buttaroni al Sussidiario -. Ci sono più piani che si sovrappongono e che rendono la situazione molto difficile da decifrare”.
Ci spieghi.
Salvini è il leader più avvantaggiato, dal punto di vista del messaggio e di una linea politica di forte discontinuità rispetto al passato, certo più di quella dei 5 Stelle. Per cui aver indetto un referendum basato sulla discontinuità è una scelta strategica che potrebbe in parte ripagare. Però non basta.
Per quale motivo?
Salvini ha da portare in dote elementi di sicuro positivi dal punto di vista, delle sue competenze, sicurezza e immigrazione. Il problema però è che gli elettori non guarderanno solo questo.
Vuole dire che i temi principali sono altri?
A tirare di più sono i temi economici. E su questi il governo ha poco da portare in dote. Vale per entrambi i partiti, M5s e Lega.
Le aspettative sono state deluse?
Quota 100 e reddito di cittadinanza sono stati fatti, ma la distanza dalle attese suscitate è molto ampia. Le persone guardano se la propria condizione generale è migliorata o no. E questo miglioramento tangibile non c’è stato.
Colpa del governo, e dunque di Salvini e Di Maio.
No, non necessariamente, anzi. L’Italia non ha avuto l’accelerazione che era stata promessa, ma era oggettivamente quasi impossibile che ci fosse. Le politiche economiche hanno bisogno di tempo per produrre effetti che sono incompatibili con quelli di una campagna elettorale.
In effetti, lo scontro non è sulle cose più o meno fatte, ma sui provvedimenti in cantiere.
Io però mi riferisco alla lunga campagna elettorale che di fatto dura quasi ininterrottamente dal 2017, e che con la breve parentesi della formazione del governo e della luna di miele dell’estate 2018 arriva fino a oggi.
I leader spostano il consenso o parlano solo ai bacini elettorali di riferimento?
I risultati saranno determinati non tanto da uno spostamento di consensi, che c’è, beninteso, quanto dall’affluenza. La lunga campagna ha fatto crescere l’attenzione ma anche aumentato l’incertezza. In tanti devono ancora scegliere non solo per chi votare, ma se andare alle urne oppure no. Questo farà la differenza.
Cosa può dirci di chi non andrà a votare?
Se non andrà, sarà per quel rumore di fondo che non è mai cessato da quando è iniziata la campagna delle ultime politiche. Un sorta di frastuono che ha impedito all’opinione pubblica di sedimentare. Di conseguenza le preferenze degli elettori, almeno di una parte consistente, sono molto volatili. Il consenso è provvisorio, i legami col voto sono deboli.
Potrebbero esserci sorprese?
Potrebbero esserci e non esserci. I sondaggi che abbiamo sono indicativi solo fino a un certo punto. Probabilmente gli ultimi giorni saranno decisivi.
Torniamo indietro di cinque anni. Grillo riempiva le piazze, M5s suscitava o entusiasmo o paura. Questa paura convogliò moltissimi voti moderati verso il Pd di Renzi, che ottenne il famoso 41%. Oggi l’uomo delle piazze è Salvini. La paura e la campagna “antifascista” premieranno i suoi avversari, M5s compreso?
Io vedo più differenze che somiglianze. L’unica somiglianza è l’uomo della discontinuità, ieri Renzi rispetto a Monti, oggi Salvini rispetto all’Europa. Però il moderato allora era Renzi, che nel panorama politico campeggiava solitario. Questo gli rese la vita più facile. Ora ci sono più piani che vanno a contrapporsi e a complicare le cose.
Ad esempio?
Il governo è composto da due partiti che fanno contemporaneamente da maggioranza e opposizione. Non è mai stato così. È un fatto che determina una serie di conseguenze anch’esse inedite, disorientanti. Prendiamo i Cdm. Prima i consigli dei ministri finivano con un risultato certo, oggi prevalgono i rinvii, è come se se ci fossero tanti pre-consigli in attesa del “vero” Cdm che non si sa bene come andrà a finire.
Come è cambiato il M5s per i suoi elettori dal 2014 a oggi?
Rimane un partito trasversale. Nel 2013-14 raccoglieva i consensi degli arrabbiati che si sentivano traditi dalla classe politica, mentre oggi il suo elettorato è più espressione del deterioramento del ceto medio nei propri standard di vita. Quelli che hanno pagato di più il prezzo della crisi e non sapendo rialzarsi aspettano che qualcuno li aiuti.
Secondo lei, da analista, c’è un partito, dalla Lega al Pd, passando per M5s, FdI e FI, che ha sbagliato campagna elettorale?
Se ha sbagliato rispetto a una parte dei propri elettori potenziali, potrebbe aver avuto ragione rispetto ad altri. Vale per tutti. Ci sono due ragioni. La prima è che i partiti conoscono relativamente poco il proprio elettorato. Non solo oggi; vale per gli ultimi anni. La seconda è che nel bene e nel male vogliono contenere al proprio interno “tutto”. Cosa impossibile.
Le cito alcuni partiti. Mi dica un elemento che li caratterizza. Forza Italia?
Ha un forte radicamento in una età media più alta.
Lega.
È il partito che nelle dichiarazioni del leader esprime con più forza l’idea di un cambiamento. Ma i toni si sono molto ammorbiditi rispetto anche soltanto a un anno fa. Non parliamo di quando c’era “no euro” nel simbolo. Lo stesso vale per M5s.
Toni più morbidi sull’Unione Europea.
Sì. In Italia non c’è più un partito anti-europeista senza se e senza ma. Tutti parlano di come cambiarla.
Il voto cattolico?
No esiste più dagli anni 70.
Però Di Maio ammicca al voto dei cattolici. Frena sull’anti-sistema, apre all’accoglienza, si fa garante con l’Europa sui conti.
Sì, è vero. Ma il problema non è tanto il voto dei cattolici. Deve aver capito che c’è un’area moderata molto ampia non avvezza ai decibel troppo alti. Elettori che quando si eccede nell’alzare i toni, ci ripensano. È quello che è successo a Renzi.
Come fa a dire che il rumore non paga?
Quando Renzi ha dato le dimissioni da presidente del Consiglio ed è arrivato Gentiloni, che è l’opposto di Renzi, la fiducia in lui è cresciuta molto per il suo stile, il suo tono pacato.
Da questo punto di vista Renzi e Salvini sono paragonabili?
Renzi, Salvini e Di Maio sono tutti leader che usano le parole con un “volume” molto alto, con espressioni forti e nette, senza sfumature di grigio. Ognuno a modo suo, con una sua cifra. Ma alla fine sono le differenze a prevalere.
(Federico Ferraù)