L’astensionismo per le europee è peggiore di quello per le elezioni nazionali. Lo confermano puntualmente i sondaggi politici e le rilevazioni. La disaffezione degli italiani rispetto alla politica è ormai un leitmotiv delle votazioni, ma quelle per il Parlamento UE solitamente fanno registrare un livello di disamoramento superiore alle occasioni in cui la posta in gioco è tutta interna al sistema italiano. Complessivamente, spiega Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos e docente di teoria e analisi delle audience nell’Università La Sapienza di Roma, quasi la metà degli elettori potrebbe scegliere di non recarsi alle urne. Un numero superiore alle politiche del 2022. Il calo di fiducia nell’Europa, d’altra parte, è ormai nei fatti, passando, nel giro di 15 anni, dal 77% al 47%: le promesse di una UE capace di ridurre le disuguaglianze finora sono andate deluse e l’elettorato progressivamente si è recato a votare sempre di meno. Ci sono anche segnali di sfiducia nella democrazia: il 37% vedrebbe di buon occhio un uomo forte alla guida del Paese, il 32% ritiene che ci potrebbero essere sistemi autoritari migliori della democrazia. Rappresentano una quota ancora minoritaria, ma comunque segnalano una tendenza da tenere in considerazione.



Secondo i sondaggi politici, il 46% dei ceti popolari dice che votare è poco utile, un indicatore che può aiutarci a capire quanto sarà esteso l’astensionismo?

Questo dato riguarda solo i ceti popolari, la dimensione del non voto in generale in questo momento oscilla tra il 48% e il 52%, sotto il valore delle ultime europee. Nel 1979, alle prime elezioni europee, aveva votato l’86,12%, nel 1994 si era scesi al 74,6%, mentre nel 2009 si è giunti al 66,4%. Alle ultime consultazioni UE del 2019, infine, ha votato il 56% degli italiani. Probabilmente ora saremo sotto questa quota.



È una conferma della generale disaffezione al voto, così come riscontrata anche nelle elezioni nazionali, oppure c’è una specificità del voto europeo?

Il dato di astensione si è via via divaricato alle elezioni europee rispetto alle nazionali. Nel 1979 alle europee si è votato il 10 giugno; il 3 giugno, una settimana prima, gli italiani avevano rinnovato il loro Parlamento. La differenza nell’affluenza è stata di 4 punti percentuali: 90% alle politiche, 86% alle europee. Se guardiamo l’ultimo dato del 2019 confrontato con le politiche del 2018, vediamo invece che nelle parlamentari interne ha votato il 72,9%, nelle europee successive il 56%, una differenza di 16 punti.



La disaffezione al voto, insomma, è più accentuata per quanto riguarda le elezioni Europee?

Esattamente. Alle ultime politiche del 2022 abbiamo registrato un 63,9% di partecipanti, il dato più basso nella storia italiana per consultazioni nazionali, a riprova di una disaffezione progressiva verso la politica, cui si aggiunge un’ulteriore disaffezione e sfiducia nei confronti dell’Europa.

Dai sondaggi politici si evince che la sfiducia nell’Europa negli ultimi venti anni è aumentata in modo non indifferente: come è cambiato questo aspetto?

La fiducia nell’Europa nel dicembre 2009 era al 77% mentre oggi è al 47%. Sulla partecipazione al voto incidono molteplici dinamiche. La UE ha comunque mostrato quale poteva essere il suo ruolo nella fase Covid e in un intervento per lo sviluppo come quello del PNRR, ma c’è un aspetto nel quale ha fallito, nella percezione dell’opinione pubblica. Riguarda la promessa di creare un continente nel quale le disuguaglianze, le differenze, fossero ridotte o almeno calmierate. Il livello di disuguaglianza, invece, si è accentuato. E in Italia il tema dell’ascensore sociale bloccato, delle minori opportunità per chi nasce in un certo contesto sociale è molto sentito. L’Europa su questo mostra di essere al palo, mentre la promessa era che essere cittadini europei significava acquisire livelli di benessere destinati a tutti e non solo a pochi.

Ci sono dati che confermano questa interpretazione?

In Italia c’è una media nazionale del 70% di insoddisfatti rispetto alla democrazia, nei ceti popolari si arriva quasi all’80%. Meglio va per i ceti medi che, rispetto a una media del 30% di soddisfazione, raggiungono invece il 40%. Se guardiamo a un dato più internazionale, il tema della povertà e delle disuguaglianze sociali, nei sondaggi politici, è il secondo al mondo dopo l’inflazione. Nei Paesi europei vediamo che in Olanda è importante per il 36% delle persone, in Germania per il 34%, e lo stesso a scalare in Francia (29%) e Spagna (28%), che lo avvertono ancora di più dell’Italia (27%). Nel nostro Paese vengono considerati più importanti solo problemi come l’inflazione (29%) e il lavoro (37%), che resta la questione principale.

Questi tre temi sono anche quelli che incidono di più sull’astensionismo europeo degli elettori italiani?

Sicuramente, leggendo i sondaggi politici, incide molto il tema del lavoro, anche in termini di precarietà, e quello, appunto, delle disuguaglianze sociali. In Italia la preoccupazione per il lavoro è più alta che nel resto d’Europa: gli unici che ci battono sono gli spagnoli con il 41%. La Gran Bretagna, invece, è al 12%, la Germania al 10%, la Francia al 9%.

Non possiamo entrar nel merito dei sondaggi politici, ma è possibile ipotizzare quante sono le persone ancora indecise se votare o no domenica?

Complessivamente, dai miei sondaggi politici, tra quanti non andranno a votare e quanti sono indecisi si arriva intorno al 48%. Una percentuale che potrebbe aumentare.

I sondaggi politici sottolineano che da una parte c’è l’esigenza di una maggiore partecipazione diretta della gente alle decisioni politiche (auspicata dal 66%) mentre dall’altra c’è un 37% di elettori che non disdegnano l’uomo forte. Due facce della stessa medaglia?

Sono due anime entrambe presenti: una maggioritaria che rappresenta i due terzi del Paese, che non vuole uomini forti e difende la democrazia, un’altra, per ora minoranza, che pensa a qualcuno che possa risolvere i suoi problemi. È un pendolo che oscilla a seconda dei periodi storici.

(Paolo Rossetti) 

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