Oltre due famiglie su tre preoccupate per la politica della Banca centrale europea di continuo aumento dei tassi di interesse. Una percentuale che cresce fino a quattro famiglie su cinque se ci si limita ai ceti più popolari, quelli che più degli altri risentono della crisi. Lo dice il sondaggio dell’osservatorio Fragilitalia, che è stato realizzato da Legacoop con Ipsos. I numeri parlano chiaro: la politica della Bce incide pesantemente, in negativo, sulle famiglie italiane: secondo il 73% degli intervistati le danneggia considerevolmente, mentre per il 71% gli effetti deleteri riguardano tutto il sistema, aziende comprese. Un giudizio, quest’ultimo, particolarmente negativo se si prendono in considerazione gli abitanti del centro, per tre quarti contrari all’operato della Bce di Christine Lagarde, così come nelle isole (73%).
“Bisogna stare attenti – spiega Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos e docente di teoria e analisi delle audience nell’Università La Sapienza di Roma – a fare in modo che la medicina, la cura per l’inflazione, non crei più danni della malattia”.
Manca una vera strategia: l’Europa chiede alle famiglie di alzare il livello energetico delle loro case o di comprare auto elettriche, ma poi alza i tassi di interesse rendendo difficile comprare anche un elettrodomestico. Resta, infine, il nodo dei salari: in Italia il loro potere d’acquisto continua a diminuire, mentre dall’altra parte uno studio del Fmi spiega che il 40% dell’inflazione è dovuta ai profitti delle imprese.
Quanto le famiglie italiane sentono il peso dell’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Bce?
C’eravamo abituati bene, con un lungo periodo di tassi bassi, ma in questo momento la doppia morsa dell’aumento dell’inflazione e dei tassi di interesse colpisce una buona parte delle famiglie italiane. L’inflazione colpisce soprattutto le famiglie più deboli, meno abbienti, mentre l’aumento dei tassi di interesse colpisce la parte del ceto medio un po’ più fragile, mettendo in difficoltà tutta una serie di progetti come cambiare casa, cambiare arredamento. Incide, cioè, su quella quota di persone che, pur non navigando nell’oro, sono in grado di fare degli investimenti a medio e a lungo termine. Il caro denaro grava anche sulle piccole e medie imprese, per le quali diventa difficile mettere in atto ad esempio progetti di digitalizzazione, di innovazione tecnologica, proprio perché ottenere dei prestiti è costoso.
Il 69% delle famiglie italiane è preoccupato per l’aumento dei tassi di interesse. Una percentuale che si alza al 79 se si parla di ceti popolari. Gli effetti di queste scelte macroeconomiche si scaricano sempre sulle persone più deboli?
Sì, sui segmenti più deboli, sui ceti popolari, sui lavoratori dipendenti, sul Sud: sono le aree più in difficoltà quelle colpite dall’aumento del costo del denaro, che rende più difficili attività di rinnovamento e trasformazione.
La politica della Bce, oltre che deleteria per la situazione finanziaria delle famiglie, è ritenuta anche poco chiara: per il 35% degli italiani manca una vera strategia, per un altro 34% si procede a tentoni. Da dove nasce questo giudizio?
La politica della Bce non viene percepita come strategica, si pensa che insegua un po’ la situazione, senza una visione sul lungo periodo. In questo momento stiamo dicendo alle famiglie che nei prossimi anni devono adeguare le loro case alla classe energetica E, che devono cambiare la macchina e prendere quella elettrica perché dal 2035 le altre auto non verranno più prodotte. Stiamo chiedendo loro di fare degli investimenti, ma se il costo del denaro è alto è difficile che una famiglia possa prendere in considerazione queste eventualità.
Tanto è vero che il 16%, in questa situazione, rinuncia a comprare i mobili, il 14% a un elettrodomestico e il 13% a un’automobile. La difficoltà ad acquistare riguarda beni più ordinari e aumenta se si tratta di spese più onerose, come coibentare un’abitazione?
Se vogliamo procedere all’ammodernamento energetico l’aumento dei tassi di interesse va contro queste strategie. Il tema diventa proprio questo: qual è la strategia della Bce? Se si vuole l’innovazione ci deve essere una politica finanziaria che spinga in questa direzione e che sia attenta all’origine dell’inflazione.
In uno studio del Fondo monetario internazionale si dice che quasi la metà dell’inflazione dipende dai profitti delle aziende. Ma questo dato viene tenuto in considerazione?
Lo studio del Fmi, che non è certo un covo di estremisti, dice, appunto, che il 40% dell’inflazione è dovuto all’adeguamento dei profitti da parte delle imprese e solo il 20% è dovuto al costo del lavoro. Il resto dipende dall’aumento delle materie prime.
Lo vediamo anche nei prezzi dei generi alimentari: c’è stata una diminuzione del costo dell’energia ma non della spesa da parte dei clienti. Chi vende tendenzialmente tiene i prezzi allo stesso livello?
Da una soglia di prezzo è difficile tornare indietro. Anche se risparmiano, perché non hanno più gli stessi costi per l’energia, la mantengono come prima: per loro è tutto utile.
In questi momenti di crisi c’è un aspetto che non viene mai toccato, almeno in Italia: i salari non vengono adeguati. Quanto pesa questo elemento sui conti delle famiglie italiane?
Questo è il grande tema: dal 1990 a oggi in Italia i salari sono diminuiti del 3%, mentre negli Usa sono aumentati del 40% e in Francia e Germania del 30%. Sono dati dell’Ocse. Se abbiamo i salari che nella loro capacità di acquisto sono più bassi di trent’anni fa è evidente che c’è qualcosa che non quadra, anche se le aziende continuano a dirci che hanno bisogno di tenerli bassi. Da qualche parte c’è uno spreco, o perché c’è un’incapacità a rendere produttivo il sistema, oppure perché il tasso di profitto che si vuole raggiungere è troppo alto.
Quanto incide la spesa pubblica sul costo del lavoro? È una questione anche di cuneo fiscale da diminuire?
Sicuramente abbiamo un costo del lavoro molto alto dovuto alla tassazione, ma non siamo il Paese in testa alla classifica. Il problema non è solo il profitto delle imprese, c’è un complesso di fattori. Sta di fatto che il Fmi dice che il 40% dell’inflazione dipende dal mantenimento dei profitti delle aziende. Nel 1914 Ford negli Usa alzò gli stipendi ai suoi dipendenti perché si potessero comprare le macchine: pensò che il mercato interno fosse il primo da incentivare in una fase di complessità. Noi non possiamo pensare che ci salverà sempre l’export, anche perché da quest’anno ha cominciato a rallentare. Dobbiamo investire sul mercato interno. Che vuole anche dire aumentare gli stipendi o comunque consentire alle persone di vivere bene.
Si parla molto spesso del preoccupante calo demografico che sta interessando l’Italia. Ma se proseguiamo su questa strada sarà sempre più difficile pure farsi una famiglia?
Basta pensare a quali possono essere oggi le difficoltà per una giovane coppia per avere un mutuo o per prendersi semplicemente una casa in affitto. Due ragazzi che hanno contratti precari e vanno a chiedere un affitto, se non hanno la fidejussione di papà e mamma non riescono ad averlo. Se anche avessero un contratto a tempo indeterminato e uno a tempo determinato, per avere un mutuo si indebiterebbero per 40 anni.
Cosa bisogna fare per uscirne?
Occorre una strategia, bisogna sapere dove si vuole andare. E adesso c’è difficoltà a trovare la strada.
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