Sondaggi – Il 41% degli italiani ha paura di perdere il lavoro, il rischio che si amplino le disuguaglianze sociali impensierisce il 31% e l’inflazione al galoppo inquieta il 30%: sono questi gli spettri più angoscianti che rovinano il sonno agli italiani. Disoccupazione, declassamento sociale e impoverimento per la perdita del potere d’acquisto formano una “triade molto unita”, come spiega in questa intervista Enzo Risso, docente di teoria e analisi delle audience nell’Università La Sapienza di Roma e direttore scientifico di Ipsos.
Ma non finisce qui. Anche il conflitto in Ucraina non lascia tranquilli i nostri connazionali: il 70% ha ancora paura che possa scoppiare una terza guerra mondiale. mentre l’80% resta fermamente contrario all’invio di armi a Kiev, preferendo invece la ricerca di una possibile pace.
A poco più di due settimane dal voto è questa la fotografia dei problemi che angustiano gli italiani e a cui la politica dovrebbe cercare di dare risposta. Ma anche qui emerge un dato inquietante: “Il 65% degli italiani non si fida di nessuno – osserva Risso – e l’80% ritiene che i politici e i partiti non si occupino dei problemi delle persone”. Risultato: abbiamo davanti un periodo di ristrettezze e sacrifici e siamo vittime di una sfiducia diffusa, il che ci rende un popolo di “cicale rallentate”. Risso usa questa immagine per descrivere una possibile e molto probabile difficoltà, lentezza e forse ritrosia degli italiani ad adattarsi a un tunnel che sarà lungo e pericoloso da attraversare.
Inflazione, rincari del gas, guerra in Ucraina, Covid: i motivi di preoccupazione oggi non mancano. Ma se proviamo a mettere in fila le ansie maggiori, che cosa temono di più gli italiani?
Abbiamo una triade molto densa, unita, di paure, che sono consequenziali l’una alle altre. Al primo posto spicca la paura di perdere il posto di lavoro, che attanaglia il 41% degli italiani. Il nostro Paese, eccetto la Spagna, che ha percentuali simili alle nostre, è in vetta, e ampiamente, in questa classifica addirittura a livello globale. Tanto per avere un termine di paragone rispetto ai nostri Paesi diretti competitor, in Germania la paura di perdere il lavoro preoccupa il 7% dei cittadini, in Gran Bretagna il 10% e in Francia il 14%.
La grave crisi che stiamo attraversando è globale, eppure solo in Italia si registra un’altissima preoccupazione sul lavoro. Come si spiega questa distanza abissale?
Innanzitutto, facciamo i conti con una perdita di tutele. Se ci confrontiamo soprattutto con Germania e Francia, grava sicuramente il fatto che abbiamo ormai più bassi livelli di tutele sul lavoro e una maggiore e peggiore diffusione del precariato. In secondo luogo, pesa una struttura imprenditoriale più fragile: la dimensione della piccola impresa sotto i 15 dipendenti, un tempo il mito della fabbrichetta e del “piccolo è bello” che si imponeva anche sui mercati internazionali, oggi viene avvertita come elemento di fragilità e di friabilità del tessuto economico. La competitività del prezzo non regge il confronto con Cina, India, Vietnam o Cambogia, Paesi che stanno crescendo e acquisendo una maggiore forza competitiva.
Riprendiamo il fil rouge delle preoccupazioni. Quali timori salgono su questo podio da brividi?
Al secondo posto c’è il tema delle disuguaglianze sociali, che preoccupa il 31% e al terzo, sotto di un’incollatura, si piazza la crescita dei prezzi, quindi lo scatto dell’inflazione, che inquieta il 30%.
Anche la situazione economica viene descritta a tinte molto fosche. Preoccupa di più la situazione complessiva del Paese o la condizione economica famigliare? Cosa ci raccontano i numeri?
Sicuramente la situazione economica complessiva: l’80% la descrive addirittura come pessima. Dal punto di vista delle famiglie abbiamo dei fondamentali molto solidi: il patrimonio detenuto è maggiore del Pil e ben più consistente di quello dei cittadini degli altri Paesi europei. Il problema è che è un tesoretto che non riguarda tutti gli italiani, visto che il 25% vive o sotto o intorno alla soglia di povertà. Diciamo che ormai siamo un paese di “cicale rallentate”.
Che cosa intende dire?
Ci siamo raccontati per decenni che siamo un paese di formichine, in parte è ancora vero, ma davanti al debito pubblico che abbiamo accumulato nel tempo possiamo considerarci delle buone cicale.
Perché rallentate?
Andiamo incontro a un periodo di ristrettezze e di sacrifici ed essendo, come altre, una società occidentale avanzata ci risulterà probabilmente pi difficile immaginare percorsi di autocontrollo e di decrescita.
Da formichine solerti a cicale rallentate: questo cambio di Dna antropologico potrebbe renderci meno reattivi e più indifesi davanti a una crisi come quella attuale? Potrebbe venire meno l’adagio che sentiamo spesso, e cioè che gli italiani nelle difficoltà sono più bravi e pi lesti a reagire?
Rispetto a due generazioni fa è cambiata la capacità di adattamento. Dopo l’austerity del 1973, in pieno shock petrolifero, non abbiamo più conosciuto fasi di riduzione delle possibilità e questo ha generato un tessuto sociale che poco si adatta alle difficoltà e all’esigenza di contenersi.
Durante il lockdown a causa del Covid abbiamo comunque dato una buona prova di resilienza, non crede?
Vero, ma allora siamo stati obbligati a restare chiusi in casa. Quella di oggi è una situazione ben diversa. Rischiamo di avere meno rispetto al passato, dalle temperature dei termosifoni alla possibilità di non trovare sugli scaffali dei supermercati tutti i prodotti che vorremmo acquistare. Ne possono derivare situazione di tensione, di depressione.
Oggi sono più preoccupati i giovani, la fascia di mezzo o gli anziani?
Ciascuno ha le sue preoccupazioni. I giovani temono di non avere un lavoro equo e giusto. Mi stupisco di chi si stupisce del fatto che molti giovani abbandonino posti di lavoro in cui sono chiamati a lavorare tanto, ma sono pagati molto poco. La fascia di mezzo, oggi quella più sotto pressione, ha paura di perdere il lavoro oggi e di non avere una pensione domani. Gli anziani invece sono preoccupati soprattutto del futuro di figli e nipoti.
L’82% definisce sbagliata la direzione in cui sta andando l’Italia. Secondo gli italiani, dove stiamo sbagliando? A cosa dobbiamo stare attenti?
Gli italiani cercano un po’ più di stabilità. È come se le persone, cresciute all’interno di una favola – “compra e sarai felice” –, abbiano all’improvviso scoperto che questa favola non esiste, anzi, che ci sarà un’ampia fetta di popolazione che andrà incontro a crescenti difficoltà di acquisto. Un ritorno al passato non è possibile, ma non vedono una direzione che in qualche modo possa ricostruire un po’ di serenità.
Conferma l’impressione che il Covid sembra usciti dai radar delle maggiori preoccupazioni?
Sì, certo, oggi la paura del Covid è scesa al 14%.
Ci siamo assuefatti alla guerra in Ucraina?
Può essere, ma rimane molto alta, al 70%, la paura che possa scoppiare la terza guerra mondiale o possa verificarsi qualche piccolo o grande disastro. E ancora oggi meno del 20% degli italiani è favorevole all’invio di armi. La guerra, non solo in Italia ma in tutta Europa, non piace: la stragrande maggioranza è per la ricerca di una soluzione pacifica.
Il 65% degli italiani non si fida di nessuno e l’80% ritiene che i politici e i partiti non si occupino dei problemi delle persone. Lo scoraggiamento è diffuso soprattutto nelle classi più deboli e medio-basse. È qui il serbatoio dell’astensione?
Sì, questo è il primo polmone dell’astensione.
Quale dei due schieramenti, centrodestra o centrosinistra, sembra oggi offrire risposte migliori a tutti questi problemi?
Direi che è la coalizione attualmente accreditata nei sondaggi di maggiori consensi: il centrodestra, che oggi viaggia al 46-47%, in questo momento sembra più credibile del centrosinistra. Ma ciò non significa che abbia le risposte migliori.
Su quali temi si giocherà il rush finale della campagna elettorale? Quali potrebbero essere, se ci sono, i tasti giusti per smuovere gli indecisi?
Occorre ritessere la fiducia. Il come è compito dei partiti scoprirlo.
Un’ultima domanda: a poco più di un mese dalla sua uscita da Palazzo Chigi, quanto preoccupa gli italiani la perdita di un premier come Mario Draghi?
Draghi è uno dei pochi presidenti del Consiglio che chiude il suo mandato con alti livelli di fiducia, visto che siamo ancora intorno al 60%. Altri prima di lui sono crollati anche sotto il 15%…
(Marco Biscella)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.