Non è facile essere giovani e pensare al proprio futuro quando il lavoro non offre certezze. Ed è ancor più difficile per una generazione segnata da ansia e inquietudine: i ragazzi e le ragazze della “generazione Z”, ossia i nati tra il 1997 e il 2012. Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos e docente di teoria e analisi delle audience nell’Università La Sapienza di Roma, ha molti dati recenti in proposito.
Intanto il Governo cerca soluzioni. Dopo i dati allarmanti della crisi demografica e la proposta di detrazione arrivata da Giancarlo Giorgetti, nel decreto lavoro sarebbe contenuto un maxibonus per chi assume giovani Neet.
Risso, partiamo dagli ultimi dati che ha pubblicato su Domani. Come può il lavoro essere un valore solo per il 38% dei rispondenti?
Stiamo parlando di una generazione fatta di ragazzi che in buona parte ancora studiano e solo in parte cominciano a lavorare. E aggiungo: da precari. Ma attenzione, sono giovani che cominciano a pensare cosa fare nella vita, non dobbiamo sorprenderci della loro incertezza. È vero, il lavoro viene al sesto posto, ma non in contrapposizione ad altri valori.
Che cosa c’è davanti?
Famiglia (60%), amicizia, amore, divertimento, istruzione (44%). Come si vede, anche per ragioni di età, sono altri fattori a rappresentare il centro dell’esistenza. Quindi, sul lavoro, sarei realista.
In che modo?
Diciamo che rispetto a quarant’anni fa, alla generazione dei boomers, tutto – traguardo degli studi, lavoro, famiglia – è spostato avanti nel tempo. Il lavoro si colloca all’interno di un alveo esistenziale in cui ci sono anche altri elementi.
Lei dice che vi entrano da precari. Difficile ipotizzare che possa essere diversamente.
Certo. Ma il fatto saliente, drammatico, oggi, è che questa precarietà si protrae. Se lei sentisse che a tutti i suoi amici offrono contratti precari e stipendi bassi, che idea si farebbe? È questa la realtà che i giovani respirano e metabolizzano.
La famiglia non sostiene le loro aspettative?
I giovani di oggi sono figli della parte più adulta della “generazione X” (nati fra il 1965 e il 1980) e dai baby boomers nati tra il 1960 e il 1964. Persone che sono diventate adulte negli anni Ottanta e Novanta. Un altro mondo.
Che cosa preoccupa di più questi giovani?
Il 48% teme di essere sfruttato, il 34% teme la mancanza di tutele, il 29% di non essere riconosciuto nel proprio valore, il 28% di non avere più tempo per sé perché risucchiato nel vortice lavorativo.
Sono paure che non riguardano la competenza, sembrano più di ordine psicologico.
Direi che sono di ordine esistenziale e di visione di vita. Anche se i ragazzi e le ragazze non hanno ancora vissuto una vera esperienza lavorativa, si sono fatti un’idea del lavoro, seppur generica. Hanno visto l’esperienza dei coetanei o quella di amici, parenti e genitori. E l’idea che si sono fatti è di una realtà complessa in cui non è facile esprimersi come persona. Non hanno paura delle regole – per intenderci, solo l’8% dice di temere le regole interne –, ma hanno paura di essere sviliti, spersonalizzati, ridotti a un ingranaggio e soprattutto sfruttati.
Secondo lei da cosa dipendono queste aspettative, soprattutto quella relativa allo sfruttamento?
Sono il risultato della precarizzazione estrema alla quale abbiamo assistito in questi anni. Ci sono sempre quelli che vengono assunti subito o quasi subito, ma la netta maggioranza, oltre il 50%, sa di dover intraprendere una trafila lunghissima di contratti a termine, e non necessariamente in vista della stabilità. Un percorso lungo, eccessivo, che va oltre il dovuto. In questo contesto, un “inserimento” che dura anni viene recepito come una forma di sfruttamento.
Il 28% teme di non avere più tempo libero. Vuol dire che per il 72% essere assorbiti dal lavoro è un fatto positivo.
Quello che spaventa di più i giovani non è lavorare, ma ritrovarsi in un ambiente che da un lato è poco accogliente e dall’altra li spreme all’eccesso. Direi, in sintesi, che la generazione Z aspira ad un maggiore equilibrio esistenziale.
C’è un’istanza politica che emerge da questi dati?
Non è dichiarata, possiamo solo interpretarla. Io la direi in questi termini: non siate schizofrenici.
Che cosa significa?
Da un lato vorremmo che i giovani facessero più figli, che si realizzassero professionalmente, che fossero sempre più istruiti e formati e che rimanessero tutti in Italia. Dall’altro, però, i fattori necessari a costruire questo futuro non ci sono, quel che c’è è la precarietà sistemica.
A Milano, zona Washington, dunque non in periferia e neppure in centro, una camera singola in affitto costa 900 euro al mese.
È il dazio da pagare, insostenibile, per far parte di un mondo che nei fatti si dimostra respingente. In condizioni come quelle che dice lei, guadagnare mille euro al mese da precari per non si sa quanto è come dire “non fate figli per i prossimi 10 anni”. E per avere la camera ci vuole pure la fideiussione del genitore.
Chi va a lavorare all’estero e perché?
La prima motivazione per il 53% dei giovani che se ne vanno è avere stipendi più alti. Il secondo motivo è che in Italia vengono offerti solo contratti di stage.
I dati su inclusione ed esclusione ribadiscono che siamo un Paese a più velocità. Il 53% si percepisce in difficoltà o escluso, il 47% invece si sente al passo coi tempi. Nella classe di età che stiamo esaminando, il Sud si sente più all’avanguardia del Nord, 15% contro 11%. Come mai?
Al Sud ci sono giovani molto ben formati e determinati, sentono di avere delle chances e vogliono giocarsele. Sono quelli che lasciano il Sud per il Nord o per l’estero.
Quanto all’esclusione, i giovani battono gli adulti: i nativi digitali sono i più esclusi. Il 12% di under 30 contro il 9% di over 50.
L’escluso con più di 50 anni è una persona che ha avuto cadute e difficoltà personali, il giovane da un certo punto di vista è ancor più svantaggiato perché non resta indietro, ma viene tagliato fuori. Ha davanti a sé di fatto una società chiusa, una montagna da scalare superiore alle sue forze. E si può sentire soverchiato e disilluso, quando non escluso. Poi va detto che c’è ancora un’esclusione di classe.
In numeri?
Il 21% dei figli del ceto medio avverte chance di un futuro migliore dei padri. Nei ceti popolari si scende al 3 o 4%. Mentre il 14% pensa che a loro andrà peggio.
Come commenta il dibattito sulla natalità?
Alla luce di queste considerazioni il calo demografico non sorprende, anzi, si spiega molto bene.
Assegno unico o detrazione fiscale?
La crisi della natalità è un tema che riguarda tutte le società occidentali, c’è dentro il lavoro, ma anche il senso del fare una famiglia oggi. Ritengo che le soluzioni prospettate siano utili, ma insufficienti. Occorre una strategia culturale complessiva.
Da dove comincerebbe?
Da un welfare a misura di famiglia, che vuol dire sostegni ingenti per chi ha figli al nido, welfare aziendale, supporto alle spese diversificato secondo l’età e le esigenze dei figli. La società italiana deve mostrarsi più aperta e accogliente verso i giovani e le loro istanze.
(Federico Ferraù)
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