Il costo della transizione energetica è troppo alto. Così la pensa la popolazione di due Paesi emergenti come l’India (67%) e l’Indonesia (73%) anche se questa osservazione ormai si fa strada non solo fuori dall’Europa, ma nell’opinione pubblica di nazioni che sono considerate capofila della svolta green. In Svezia, infatti, la pensa allo stesso modo il 45% della gente, mentre in Olanda la percentuale è del 44. In Italia siamo al 30%, poco sotto Francia (33%) e Germania (31%).
Secondo un sondaggio Ipsos global, insomma, la transizione tanto sbandierata dall’Unione europea viene vissuta da molte persone come poco inclusiva, perché onerosa, soprattutto per coloro che, al netto dell’adeguamento alla svolta green, fanno fatica ad arrivare alla quarta settimana. “Non si mette in dubbio la transizione energetica -spiega Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos e docente di teoria e analisi delle audience all’Università La Sapienza di Roma– ma così rischia di diventare una cosa per ricchi: basta pensare a quanto costa un’auto elettrica. Il fronte anti green non è contro per cultura o per principio, è costituito da persone che si sentono escluse dalla transizione ecologica perché non ne hanno le possibilità. Per conquistarle a questa battaglia bisogna sostenerle economicamente”.
Professore, diversi Paesi fuori dalla Ue, ma anche una parte consistente dell’opinione pubblica europea, pensano che sia troppo costosa. La transizione green come è pensata in questo momento non è inclusiva?
Da un lato nei Paesi extraeuropei, quelli che stanno cercando di crescere come l’India, la Thailandia, la Malesia, Singapore, ma anche il Messico, la transizione green non è avversata, ma viene ritenuta troppo costosa, onerosa e difficile. Dall’altra parte abbiamo la situazione dei Paesi europei dove rischia di essere, se non fatta in modo inclusivo, una transizione che si possono permettere solo i ricchi, imponendola ai più poveri. Se non viene affrontata adeguatamente rischia di diventare un ulteriore elemento di diseguaglianza sociale. La transizione green va fatta, ma non può essere un processo che alimenta divisione sociale. Tutto ciò creerebbe tensioni e opposizioni.
Questo atteggiamento è dovuto anche al modo in cui la transizione è stata presentata dall’Unione europea?
Se si imposta come fattore burocratico, in cui si mettono date e scelte e non c’è un processo che accompagna questo percorso per rendere egemone la cultura green e per aiutare le persone che sono in difficoltà di fronte alla transizione, è evidente che si creano dei problemi.
Lo scetticismo cresce anche in Paesi come l’Olanda dai quali ci si aspetterebbe una sensibilità green più accentuata.
Anche in Svezia è così. In ogni processo di transizione ci sono vinti e vincitori, ma il numero dei vinti deve essere ridotto. Dobbiamo riuscire a realizzare una politica in cui i costi non vengono scaricati tutti su di loro.
In una situazione economica difficile come quella attuale i pesi da sopportare rischiano di diventare troppi?
Gli stipendi in Italia sono fermi dagli anni 90. Il lavoro offerto ai giovani spesso è precario. Le possibilità di affrontare l’inflazione generano apprensione. È arrivato il caro mutui e comprarsi un’auto e una casa costa sempre di più. Da qualche parte bisogna mollare.
Su questa base i costi della transizione, già di per sé onerosi, rischiano di diventare insopportabili?
Se le case non adeguate alla transizione green vengono svalutate si rischia di trovarsi di fronte a milioni di persone che hanno fatto sforzi per acquistare un’abitazione e poi si vedono il bene deprezzato. Occorrono politiche includenti. L’opinione pubblica vuole la transizione green, ma non si possono scaricare tutti i costi sui ceti più deboli. Chi fa fatica ad arrivare alla fine del mese è difficile che adegui la classe energetica della casa da G a E.
In India (62%) Malesia (32) Thailandia e Singapore (28), ma anche in Olanda e Inghilterra (23 ) Polonia e Francia (22) e Italia (16) c’è anche una fronda di cittadini che sono contrari a modificare le loro abitudini per far fronte ai cambiamenti climatici. Come si spiega questo modo di pensare?
Perché sono costretto a cambiare le mie abitudini e questo riduce la possibilità di arrivare a un certo livello di benessere. Stiamo parlando soprattutto di Paesi che stanno emergendo, che stanno cercando di arrivare, appunto, a un livello minimo di benessere. Se la transizione diventa un costo ci sono più resistenze.
Hanno appena raggiunto certi standard e non vogliono tornare indietro?
Esattamente.
C’è una parte di resistenza culturale, di negazionisti?
No. Alcuni pensano che le ricadute saranno sul lungo periodo e che quindi si può anche rallentare. Però anche nei Paesi in via di sviluppo c’è l’esigenza di procedere nella transizione green. Ci sono intere città che hanno paura di essere sommerse, la desertificazione. Le persone non sono contro, semplicemente non vogliono essere messe dalla parte di quelli che non potranno fare la transizione o su cui pesano tutti i costi.
La ricerca quali Paesi ha riguardato?
Non solo l’Europa e l’Asia. Ci sono tutti i Paesi, anche Usa e Canada, Brasile e Argentina. In tutti si notano le stesse dinamiche. Anche negli Stati Uniti c’è una quota del 30% che è refrattaria al green.
Gli italiani, invece, come la pensano?
La spinta green è più forte che altrove. Se mediamente nei Paesi europei la quota di persone che hanno dei dubbi o che oppongono resistenza oscilla tra il 20 e il 30%, in Italia siamo tra il 10 e il 15%. Rimane comunque una quota di persone secondo le quali non si tratta di un’operazione inclusiva.
Come mai proprio Svezia e Olanda sono tra i Paesi in cui si avverte il peso della transizione e dei suoi costi?
Perché sono più avanti nelle politiche green e quindi ne comprendono meglio le contraddizioni. Certe dinamiche le hanno già toccate con mano.
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