LA FOLLIA DI KAMALA HARRIS (E NON SOLO) IN UN VIDEO SURREALE

Buongiorno a tutt*, mi chiamo Niccolò Magnani, i miei pronomi sono He/Him, sono un giornalista che avverte una sorta di fastidioso prurito nel vedere come si può avere la realtà davanti e non volerla vedere. Siamo impazziti tutto d’un colpo? No, se siete qui è perché avete letto il titolo qui sopra e dunque sapete a cosa ci stiamo riferendo: o meglio, pensate di poterlo sapere ma sappiate che è nulla in confronto di quanto state per vedere. Ci ha lasciato basiti quel video divenuto virale negli States che inquadra la vicepresidente Kamala Harris ad un tavolo con altre donne, dove ognuna è intenta a presentarsi nel più minimo dettaglio per evitare “fraintendimenti”, accuse di discriminazioni e quant’altro.



Sorridono tutti quando la n.2 della Casa Bianca introduce: «Sono Kamala Harris, i miei pronomi sono lei e lei, e sono una donna seduta al tavolo che indossa un abito blu». A seguire, tutte le interlocutrici – con rigorosa mascherina anti-Covid d’ordinanza – si presentano con nome, pronomi e cosa indossano in quel momento. Si chiama nel gergo “linguaggio inclusivo” ed è il tentativo sempre più marcato negli ultimi anni di utilizzare termini che non possano “discriminare” o far sentire non accolti/non rappresentati gender fluid, non binari e chiunque abbia un’identità di genere non corrispondere ai canonici maschile/femminile. Il video però della vicepresidente Usa raggiunge tratti surreali: ognuna che si presenta, in una sorta di “riunione degli alcolisti anonimi collettiva” con tanto di dettaglio cromatico del vestito per evitare di porre chissà quale fraintendimento.



“WOKE CULTURE”, QUANDO LA REALTÀ NON BASTA PIÙ

Dal rispetto con un linguaggio inclusivo alla “cancel culture” di quella tremenda età pre-schwa dove tutti erano discriminati (e intendiamoci, molti lo erano per davvero ma per motivi seri, non per il pronome in una riunione con la n.2 della Casa Bianca, ndr), fino alla “woke culture”, ovvero il tentativo di “destare” le nuove generazioni dalle discriminazioni feroci di norma dell’uomo bianco, repubblicano e “cisgender”. A parziale scusante della vicepresidente, la Harris ha accolto in quella riunione i leader nazionali per la disabilità ed è cultura ormai sempre più in uso quella di utilizzare al massimo un linguaggio inclusivo per dare il “buon esempio” contro i discorsi di odio e di discriminazione.



Resta però il problema di fondo, ovvero quello di dover cercare di convincere il mondo a parole che l’erba è verde, che un forno è caldo e che un neonato piange, senza accorgersi che basterebbe osservare la realtà per assumere la medesima percezione. “Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità” diceva il grande scienziato Alexis Carrell in una lezione forse ormai decisamente “dimenticata”, se non proprio “cancellata”. Infine, perdonateci la burla sardonica, prendendo spunto dai tanti commenti che hanno intasato sui social il video in arrivo dagli Stati Uniti, non possiamo che porci anche noi il definitivo dilemma: ma quel vestito della signora/ina/* Harris, a questo punto, si sentirà davvero blu? E se si sentisse discriminato per questo? E se lo fossero i daltonici che non possono vedere quel colore? Qualcuno ci ha pensato?