Generare profitto, ma al contempo creare, attraverso la stessa attività d’impresa, un valore condiviso per la collettività, con un impatto positivo sulla società e sul pianeta. È questo il modello cui tendono le Società Benefit, aziende che, grazie a una legge approvata nel 2016, scelgono di cambiare ragione sociale, per sottolineare un profondo cambio di paradigma nel loro modo di fare impresa: pur restando all’interno dei meccanismi di un’economia di mercato, le Società Benefit hanno per mission quella di perseguire in maniera misurabile precisi obiettivi di beneficio comune. Una scelta di campo che porta queste società a impegnarsi su diversi fronti: dal rapporto con le comunità locali alla tutela dell’ambiente, dalle partnership con associazioni del terzo settore o della società civile, al sostegno ad attività culturali.
Le Società Benefit, dunque, si candidano a recitare un ruolo strategico in un mercato sempre più complesso, dove la sostenibilità rappresenta una chiave di volta per la crescita e lo sviluppo economico. Si tratta però di una sfida impegnativa. Che richiede di mettere a fattor comune idee, esperienze, best practices. E proprio da questa esigenza prende le mosse il convegno “Al Servizio della comunità: dall’Opera Barolo alle società Benefit”, in programma il prossimo 31 gennaio presso Palazzo Barolo a Torino. Un’occasione d’incontro e riflessione sul ruolo sociale delle imprese, che vedrà la partecipazione di diversi soggetti chiamati a raccontare i loro modelli welfare innovativo. Uno per tutti, quello che racconteranno i rappresentanti di Geos Onlus e Associazione Next, due realtà dedicate rispettivamente all’accoglienza di minori e migranti (Geos Onlus) e all’inclusione lavorativa di persone in difficoltà (Associazione Next): proprio sul territorio torinese lanceranno un progetto finalizzato all’inclusione sociale di migranti e soggetti fragili, coinvolgendo anche il mondo delle imprese, a partire da Procter&Gamble, che sostiene il “modello Next” a livello nazionale e condividerà la sua esperienza di cittadinanza attiva.
A definire il contesto valoriale che ha reso possibile questo progetto saranno gli interventi del presidente della Fondazione Barolo, Luciano Marocco e del presidente di Assobenefit Mauro Del Barba. Sul fronte delle imprese, a raccontare esempi concreti di coinvolgimento in progetti a favore della comunità saranno invece Renzo Sartori, presidente del gruppo logistico Number1, che dal 2017 sostiene progetti di inclusione lavorativa di persone in difficoltà, Riccardo Calvi, direttore Comunicazione Procter&Gamble in Italia che ha sviluppato il programma di cittadinanza d’Impresa “P&G per l’Italia”, che realizza progetti di sostenibilità ambientale e sociale nel nostro paese e Marina Salamon, eclettica imprenditrice, dal 1991 alla guida della società di ricerche Bva Doxa, che due anni fa ha scelto di trasformare in Società Benefit una delle sue “creature”, Altana, l’azienda di moda che ha fondato nel 1982, specializzata nell’abbigliamento per donna e bambino nel segmento lusso e nella gestione di marchi in licenza, tra cui Moschino e Gucci.
Marina Salamon, da dove nasce questa decisione?
In realtà, il mio impegno nella prospettiva della responsabilità sociale prende forma molto tempo fa. Fin dall’inizio del mio percorso professionale, ispirata anche dalle letture degli scritti di Adriano Olivetti e don Milani, mi sono posta nell’ottica di non concepire l’azienda solo come un luogo per realizzare un guadagno, ma come una comunità. All’epoca, parliamo degli anni Ottanta, non esistevano le Società Benefit, ma agli imprenditori era comunque data la possibilità di distribuire una parte degli utili ad associazioni riconosciute e capitalizzare seriamente le aziende con le risorse rimanenti. Va detto però che in Italia questa non era una pratica molto di moda. Se così fosse stato, non si sarebbero verificati tanti crash. Non ci sarebbero state, per dirla con una battuta che molto è circolata a quei tempi, “famiglie ricche e aziende povere”. Nel mio caso personale, il percorso è invece proseguito serenamente e positivamente, tanto che alcuni anni fa ho scelto di trasformare Altana in Società Benefit. E lo stesso ho fatto anche per Connexia, l’agenzia di consulenza e comunicazione dalla cui compagine azionaria sono uscita a dicembre, lasciando però una strada tracciata: la nuova proprietà ha infatti scelto di condividere gli stessi principi che mi avevano ispirato fino ad allora. E altrettanto ho fatto ancora per Save The Duck, la società nata con l’obiettivo dichiarato di produrre capi di abbigliamento nel rispetto degli animali, dell’ambiente e delle persone, di cui sono stata a lungo azionista.
A conti fatti, questi percorsi si sono rivelati positivi?
Certo, si sono rivelate esperienze totalmente positive. Se consideriamo lo specifico caso di Altana, i vantaggi hanno toccato sia il fronte interno sia quello esterno. Quanto al primo, partivamo da una situazione virtuosa tanto sotto il profilo delle condizioni di lavoro quanto sotto quello delle premialità rivolte ai collaboratori, ma la certificazione di Società Benefit ha rappresentato uno stimolo ulteriore per individuare insieme – proprietà e lavoratori – le soluzioni più gradite. Per portare un solo esempio concreto, già prima della pandemia avevamo sperimentato contratti ibridi che prevedevano un’alternanza tra la presenza fisica in azienda e il lavoro da remoto. Sul fronte esterno, invece, la trasformazione in Società Benefit ci ha portato a rafforzare un aspetto che nella moda è cruciale: il controllo delle condizioni di lavoro di tutti i fornitori della catena.
Come ci siete riusciti?
Abbiamo messo in campo un grande lavoro di certificazione progressiva, ci siamo impegnati in controlli e verifiche di tutta la filiera coinvolta, spaziando da chi cuce a chi produce i tessuti, per arrivare anche a chi si occupa di aspetti apparentemente più marginali, come per esempio la cromatura delle cerniere. E questo ha portato un ulteriore riconoscimento di serietà e valore da parte dei nostri interlocutori, ovvero da parte di grandi case di moda, che su questi temi si muovono con molta serietà. Ma non solo. Stanno anche nascendo progetti condivisi, come testimonia la collaborazione con Gcds, con cui stiamo vagliando l’ipotesi di una donazione a una grande associazione ambientalista. Occorre però evitare il rischio che queste azioni corrispondano solo a un’operazione di green washing: il punto infatti non è tanto comunicare un posizionamento, quanto mettere in atto una strategia coerente con i principi che si è scelto di seguire. Per gli imprenditori si tratta, insomma, di una questione di coscienza.
Dal suo osservatorio, qual è oggi la risposta del mondo imprenditoriale allo stimolo delle Società Benefit?
Credo che lo scenario stia cambiando. Anche ad alti livelli, la questione etica si sta imponendo. Le aziende, se già non lo hanno fatto, impareranno che la loro reputazione, che passa attraverso i comportamenti delle stesse società e delle persone che le rappresentano a qualunque livello, costituisce un asset fondamentale, in grado di riflettersi a tutto campo sull’andamento dell’azienda. E se questo verrà compreso, si ridurranno speculazioni e comportamenti scorretti. Per dirla con Giovanni Falck, si tratterà di capire che essere buoni è più intelligente. Nel lungo periodo è questo ciò che conta. La buona notizia è che siamo sulla strada giusta: oggi il tema è affrontato con minore diffidenza rispetto al passato. E soprattutto ho molta fiducia nella generazione dei giovani, perché mi sembra che portino in sé valori fortissimi, che non coincidono soltanto con quelli della carriera personale.
E qual è il ruolo delle istituzioni a sostegno delle imprese che scelgono di impegnarsi in operazioni di carattere sociale?
Temo che le istituzioni arrivino un po’ in ritardo rispetto ai cambiamenti in atto, che sono accelerati. Vero è che in Italia è stato riconosciuto lo statuto di Società Benefit. E questo è già un fatto importante, perché altrove non è avvenuto così. Vero è però anche che, incassato questo risultato, si potrebbero immaginare incentivi positivi rispetto alle trasformazioni virtuose. Per esempio, a fronte dell’impegno a mantenere in azienda nel lungo periodo un aumento di capitale, si potrebbe prevedere una tassazione agevolata. Ancora, a livello normativo, non va neppure dimenticato il miglioramento apportato dalla possibilità di donare fino al 10% degli utili prima delle tasse ad associazioni benefiche riconosciute. E questo senza nessun tetto in termini di valori assoluti, limite che invece un tempo gravava su queste operazioni. Si tratta di un passaggio importante perché spinge le aziende a distribuire risorse al territorio in cui operano come pure a progetti di respiro internazionale. Ma queste iniziative virtuose andrebbero ancora più incoraggiate. Per esempio, si potrebbe ipotizzare di ridurre la tassazione sulle grandi eredità, nel caso una parte di queste ultime venga destinata a scopi benefici. E non si tratta di questioni di secondo piano: se non intraprenderemo questa direzione, non parteciperemo ai processi già in atto nei Paesi anglosassoni, dove le fondazioni recitano un ruolo molto forte.
(Chiara Bandini)
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