E’ fin dai tempi della scrittura dei brani per i Bluvertigo che Marco “Morgan” Castoldi ha sempre cercato di dare alla composizione musicale un senso più profondo e coerente in sé stesso; un percorso che lo ha portato, oltre che a creare della musica, anche a rileggere quella fatta da altri, mostrando come in una canzone della cosiddetta musica leggera possa dischiudersi un intero mondo di valori e significati nascosti o poco visibili al pubblico distratto.
Non per niente, nella sua discografia figurano non solo i due Italian Songbook vol. 1 e 2 con pezzi risuonati e riarrangiati di Sergio Endrigo (Back Home Someday, originariamente scritta da Endrigo per il western Le Colt Cantarono la Morte e Fu Tempo di Massacro), di Piero Ciampi (That Someone, un’inedita traduzione in inglese effettuata da Marco stesso), Luigi Tenco, Umberto Bindi, Pino Donaggio e tantissimi altri; ma anche l’album Non Al Denaro, Non all’Amore Né al Cielo, vero e proprio remake del capolavoro di Fabrizio De Andrè (operazione più unica che rara nel mercato musicale).
In ogni suo live non mancano omaggi a geni musicali come David Bowie o i Queen, fino a musicisti italiani come Pino Daniele, Franco Battiato o appunto De Andrè.
Probabilmente però nessuno sa che proprio di una delle canzoni più belle, più conosciute ma anche più difficili e più intense del genio genovese, ovvero Creuza De Ma (la locuzione ligure crêuza de mä, nel genovesato, definisce un viottolo o mulattiera, talvolta fatto a scalinata, che abitualmente delimita i confini di proprietà privata e collega -come del resto fa la maggior parte delle strade in Liguria- l’entroterra con il mare), Morgan abbia scritto un’attenta e rispettosa rielaborazione e traduzione in italiano.
In questo modo, il brano già di per sé affascinante mostra nuove alchimie e nuove prospettive, con un’attenzione particolare alle allitterazioni e alla tradizione dislattale.
Ne abbiano parlato con lui.
“Conosco Creuza de Ma molto bene”, ha detto, “perché con Mauro Pagani ne abbiamo parlato spesso: lui lo ha scritto, l’album, mi ha fatto ascoltare i provini, mi ha raccontato tutto su com’è nato, tutti i dettagli di questo disco importantissimo che ha fatto con Fabrizio. Poi ne parlavamo anche con David Byrne, perché a lui piaceva molto questo album.
Io personalmente questa canzone l’ho sempre suonata, con Mauro: ho fatto allora un mio arrangiamento come mio interesse, come mio momento di studio.
Questa esigenza conoscitiva derivava dalla curiosità personale nei confronti di questo capolavoro del passato del 1983: un album molto importante non solo per me ma per tutti. Ad un certo punto, avendo in mano questo arrangiamento mio personale mi è venuta proprio l’esigenza di cantarla, e sono andato a prendere i testi e li ho tradotti. Nel momento in cui quindi ho creato una versione in italiano, ho trovato delle analogie con un brano di Montale, Meriggiare Pallido e Assorto, e ho trovato un linguaggio molto simile tanto che ho pensato che De Andrè avesse preso ispirazione dal poeta per scrivere il pezzo.
Ma sia dal punto di vista linguistico, sia anche come ambiente poetico, nella descrizione dell’atmosfera: perché il luogo di questo componimento ricorda anche metricamente Creuza De Ma… e allora attraverso Montale mi è venuta voglia di farlo in italiano. E lì ho scoperto un’altra cosa: che il ritmo di Creuza De Ma è un endecasillabo e mi è venuto da cantarci sopra la Divina Commedia, e finalmente ho capito come si canta, come si scandisce metricamente Dante. Perché l’endecasillabo io non sapevo come leggerlo, come pronunciarlo ritmicamente, e invece così ho capito: se tu canti la Divina Commedia sopra a Creuza de Ma ci sta perfettamente! (in effetti -e qui Marco accenna a voce il cantato- “nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai in una selva oscura/ che la diritta via era smarrita/ ahi quanto a dir qual era è cosa dura” calza perfettamente con il ritmo del brano di De Andrè, ndr).
Allora, fatta questa scoperta un giorno ne parlavo con IvanoFossati e GabrieleLavia, eravamo a pranzo, e abbiamo cantato tutta la Divina Commedia sopra Creuza de Ma e ci siamo divertiti un casino! Loro hanno apprezzato veramente tanto questa mia scoperta. A casa allora ho cantato la mia traduzione, ma prima ho dovuto risolvere molti problemi, ad esempio il fatto della “lepre di tetto”, che per i genovesi è una specie di iperbole (la canzone in originale fa “lasagne da fiddià ai quattru tucchi/ paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi”), come a dire “cucinano il gatto”, e io l’ho risolta dicendo “che sia lingua o dialetto / è pur sempre di gatto”: e in questo senso ho trovato una soluzione autoreferenziale all’iperbole di De Andrè, cioè conservando il messaggio ma cambiando le parole, i termini, le parole, e parlo con un’autodescrizione, cito il dialetto, mi riferisco alla mia traduzione.
E l’altra cosa che ho dovuto risolvere con soluzioni molto interessante è quella del goldone, che De Andrè dice “che ti peu ammiàle senza u gundun/ che te ne puoi fare anche senza il goldone” e io lì ho introdotto un altro concetto, ovvero quello della “protezione”, per associazione la protezione della crema solare e quindi l’odore della protezione. Queste secondo me sono due soluzioni interessanti.
Fatto sta che una volta ultimata questa traduzione ragionata, rispettosa del ritmo e del senso e dell’allitterazione, l’ho proposta sia a Pagani che a Dori Ghezzi, ma entrambi hanno dissentito dal pubblicarla, non sono stati d’accordo.
Non perché non gli piacesse, ma perché secondo loro non ci vuole una versione in italiano di Creuza de Ma: però credo che un tale atteggiamento sia una chiusura, un limite, perché nell’arte non è previsto il blocco, l’impedimento: nell’arte la creatività deve essere espansa, è proprio tutto il contrario, quindi è un blocco culturale, un errore clamoroso”.
Va detto che la versione in italiano di Creuza de Ma, avendola ascoltata, è un oggetto particolare, ed emozionante, oltre che valido e interessantissimo dal punto di vista prettamente semiologico e sintattico. La voce di Morgan dà un senso inedito, che collegato al testo rivela ombrosità gotiche à là Tom Waits.
Un’esegesi di Fabrizio De Andrè
Per quanto invece riguarda la traduzione come operazione culturale, ha detto Morgan: “Il lavoro che deve fare chi traduce è proprio questo: combinare significato e suono per arrivare a una cosa che ha un senso in sé, senza che poi si conosca l’originale.
Un lavoro molto complesso, fare la traduzione delle canzoni. Io ho tradotto dal dialetto Creuza de ma. Io l’ho tradotta in italiano per sapere di cosa parlare, e poi mi è venuto in mente che poteva essere presa da Montale.
Chi lo sa se De André ci ha pensato? Non lo so. Io l’ho intuito, ho fatto una mia associazione: ho preso Montale, ho preso De André, ed è venuta fuori la mia Creuza de ma italiana, dove però poi Montale non c’entra più niente, ma è soltanto per capire come dovevamo suonare certe parole se le portavo in italiano.
E allora sì ho capito il suono. La canzone di De André è meravigliosa, e chissà perché io ho visto che cera un’assonanza tra le due cose a livello di metro, di parole, di termini, di universo poetico… e anche di luogo. Ecco perché sono riuscito a farla, la traduzione. De André ha tradotto tante cose dal francese; anche da Brassens, ha tradotto.
Chissà che operazione ha fatto.
Io so soltanto che mi piace molto pensare che De André, quando nello Spoon River, tra i personaggi che lui prende, e sono nove, alla fine ci mette dentro un personaggio che è il Musicista, quindi è chi fa la canzone, quindi è lui… È un modo che ha avuto De André di mettere sé stesso, lui che è sempre stato molto pudico.
Non c’è mai, lui, nelle sue canzoni.
Ci sono personaggi, infatti fa dell’epica, non della lirica. C’è forse una canzone sua antichissima, Valzer per un amore, dove dice “Quando carica di anni e di castità / Tra i ricordi e le illusioni / Del bel tempo che non ritornerà / Troverai le mie canzoni“. Oh, che strano: sta parlando di sé, e guarda caso sta parlando di canzoni. È la prima e ultima volta, poi ci sono Marinella, Il pescatore, La ballata del Miché. Parla di altri. Qui parla di un altro, ma quest’altro, guarda un po’, fa il musicista.
Ma allora a quel punto lui si identifica, e si tende a pensare che sia proprio lì, l’identificazione dell’autore. Veniamo al punto.
Quando questo personaggio tira le somme della sua esistenza. Si chiama Il suonatore Jones e l’abbiamo letta ieri. Questa canzone dice: “E mai un pensiero lui…” Ma non lo dice in questa canzone; lo dice nella premessa, che è La collina, dove elenca tutti i personaggi facendone una specie di anticipazione.
Quando parla del suonatore Jones dice che lui “non offrì mai un pensiero, non al denaro, non all’amore né al cielo“. E quindi sta dicendo il titolo dell’album, sta dicendo quello che secondo lui è il concetto globale, sopra tutto. È il concept dell’album.
E cosa mai significa ” non al denaro, non all’amore né al cielo”? Vuol dire che questo personaggio non è… infatti è l’unico che muore felice, l’unico che ha una vita risolta, perché lui non si è mai perso via con questioni di “come il blasfemo fu picchiato perché provarono a insegnargli Dio a suon di botte, perché lui non credeva“, e credere e non credere, la religione…
Lui non si è mai occupato di questioni celesti.
Secondo.
Chi sta male per amore, è malato di cuore, l’amore lo fa impazzire… Quella che morì in un bordello, e poi tutti sono morti perché il chimico morì in un esperimento sbagliato “proprio come gli idioti che muoion d’amore“. E il suonatore Jones “non all’amore“… quindi poi abbiamo “non al denaro“, e infatti chi è per il denaro? Il medico, che “mi presero come un truffatore e mi misero in galera perché io volevo vendere lʼelisir di giovinezza“. Ladro, galera, denaro.
Denaro. L’ottico vende gli occhiali, “faremo clienti così“. Clienti.
Primo, secondo e terzo cliente. Denaro. Non al denaro, non all’amore né al cielo.
Il suonatore Jones non se ne è mai sbattuto, e infatti morì “un ridere rauco, ricordi tanti, ma nemmeno un rimpianto”.
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