Paola Cortellesi, attrice e showgirl, regista debuttante che con la sua opera prima C’è ancora domani ha incassato, fino a metà gennaio 2024, quasi 35 milioni di euro (diventando il film più visto in Italia dopo la pandemia superando blockbuster come Avatar 2, Barbie e Oppenhaimer), ha inaugurato l’anno accademico alla Luiss, accogliendo gli studenti con un discorso sulle favole sessiste.



Anzi, a leggere le varie notizie non è ben chiaro se il discorso sia fatto su fiabe o favole (così come non è chiaro se la generalizzazione sia stata fatta dai giornalisti ignoranti o pressappochisti o dalla regista), dimenticando quanto sia importante la differenza, specialmente se tutto tale discorso di apertura sia stato così aggressivo e tranchant nei confronti del genere.



Prima di tutto, allora…

Prologo

La favola è un racconto, non di rado popolato da animali (o anche uomini e dei) che vuole esortare o fare satira su usi e costumi. La favola, rispetto alle altre forme di narrazione, è un racconto più maturo per il suo provare a dare una soluzione pratica alle leggi spesso crudeli o ai pregiudizi che si instaurano tra gli uomini, presupponendo una società costruita su leggi civili. Non di rado, nelle favole si trovano animali antropomorfi, proprio per la volontà di rappresentare varie tipizzazioni umane che diventano “operatori logici“, elementi classificatori che semplificano una disamina della realtà.



La fiaba è invece un racconto fantastico di origine popolare e soprattutto di tradizione orale, dove assumono enorme importanza il meraviglioso e il magico, e sono presenti allora elfi, fate, orchi. Diversamene dalla fiaba, la favola ha una natura meno consapevole, solitamente di origine folkloristica, quindi legata alle tradizioni dei popoli. Ma è anche una tipologia di narrazione antichissima, le cui strutture narrative risalgono alle origini della civiltà per come la conosciamo, e per questo non è difficile trovare delle radici e dei motivi comuni, come unica variante i nomi e i luoghi.

Il fatto

Bene, la Cortellesi non è nuova a questa tipologia di intervento (avendolo già proposto negli scorsi anni nei suoi monologhi a teatro e altrove), ovvero una sorta di monologo che evidenzia gli stereotipi sessisti presenti nelle favole che da sempre si raccontano ai bambini. Stereotipi, nella fattispecie, ovviamente maschilisti: prendendo stavolta come paradigma Biancaneve, dipinta dall’artista come una colf al servizio dei sette nani. E continuando: “Siamo sicuri che se Biancaneve fosse stata una cozza il cacciatore l’avrebbe salvata lo stesso? E perché il principe ha bisogno di una scarpetta per riconoscere Cenerentola, non poteva guardarla in faccia?“. Ebbene, secondo lei queste storie hanno plasmato una cultura patriarcale, con protagoniste riconosciute per la loro bellezza e ingenuità, dipendendo spesso dall’aiuto di un principe.

Non c’è dubbio che l’argomento sia rovente, attuale, necessario. Perché sì, la cultura patriarcale di cui è impregnata l’Italia viene anche e probabilmente soprattutto da una questione culturale; e sì, si deve anche guardare al dato fattuale, alla realtà verbale nella quale spesso si perpetua inconsapevolmente un tipo di atteggiamento dannoso, venefico, tossico. Ma non è certo attaccando le fiabe che si può cercare una delle tante strade per risolvere il problema, perché si sposta l’attenzione su qualcosa che non solo non porta nessun giovamento, ma oltretutto porta a combattere i mulini a vento sbagliati.

La verità, vi prego, sulle fiabe

Perché le fiabe e le favole (a qualunque ordine narrativo la Cortellesi o i giornalisti vogliano riferirsi) sono prima di tutto strutture narrative che danno forma, senso e significato a una realtà condivisa, e possono essere considerate veri e propri ambienti di apprendimento (ovvero, semplificando, un approccio didattico adeguato quando si vuole promuovere un apprendimento significativo piuttosto che uno meccanico), metafore dell’esperienza umana.

Sono raffigurazioni di concetti astratti presenti nella vita come il Bene, il Male, il Bisogno, la Morte, mettendo in scena un percorso di crescita, un processo di individuazione pieno di difficoltà durante il quale non si ottiene tutto e subito.

Ma continuiamo con Biancaneve, soggetto primario che la Cortellesi ha preso ad esempio per sostenere la sua tesi. Biancaneve è precisamente una popolare fiaba europea, e la versione attualmente conosciuta è quella codificata dai fratelli Grimm, con prima edizione nel 1812, pubblicata nella raccolta Le Fiabe del Focolare, evidentemente ispirata a molti aspetti del folclore popolare del quale i fratelli erano studiosi.

Paola Cortellesi si chiede perché Biancaneve non era una cozza. Ma chi l’ha detto, che non lo era? Biancaneve è una fiaba, e come tale ha natura verbale e non iconografica: senza dire che nel suo nome, nella sua essenza ontologica, la ragazza deve avere “pelle bianca come la neve, labbra rosse come il sangue e capelli neri come l’ebano“: e questo in quanto nata da una regina che mentre è intenta a cucire si punge un dito e guardando le gocce di sangue cadute sul terreno innevato esprime il desiderio di avere una figlia con quelle caratteristiche (chiamandola, conseguentemente, Bianca-Neve, nomen omen).

Che poi: perché la bellezza deve essere considerata un fattore negativo tout court? Perché se fosse così, allora sono in tanti i mestieri a dover riflettere seriamente (ma seriamente) su sé stessi, compresi quelli che implicano un red carpet e un aspetto non meno che scintillante e bellissimo.

Paola Cortellesi si chiede perché Biancaneve deve essere una fanciulla ingenua. Ma chi l’ha detto, che era ingenua? L’incontro con la strega, il suo fidarsi di lei mangiando la mela che la megera le offre, ha un chiaro intento pedagogico, perché – com’è necessario nella struttura delle fiabe – si deve insegnare ai bambini a non fidarsi di alcune persone che possono farti del male.

Paola Cortellesi si chiede perché Biancaneve deve fare la colf. E che male c’è, a fare la colf? Senza dire che non fa la colf, ma collabora al lavoro quotidiano in una casa dove lei è piombata all’improvviso e nella quale gli abitanti, i sette nani, lavorano in miniera.

Evitiamo la caccia alle streghe

Il pericolo, insomma, nelle esternazioni come quella della Cortellesi alla Luiss, è proprio quello della generalizzazione e nella demonizzazione di ogni cosa che, apparentemente, non si confà a quello che noi vogliamo dimostrare: sminuendo però così, di fatto, il nostro stesso intento di per sé lodevole.

La bravissima attrice del film Gli ultimi saranno ultimi (di Massimiliano Bruno) vuole aiutare le ragazze e i ragazzi a liberarsi dai preconcetti patriarcali maschilisti? Tutto potrebbe fare, allora, ma non certo incitare una sciocca caccia alle streghe che non porta a nulla di utile se non a rinfocolare una guerra tra i sessi che è sciocca quanto sbagliata.

Perché non è altro che creare guerra e dissidio andare contro le fiabe per creare chiasso su sé stessi.

Perché così si incitano gli studenti (della Luiss, ma non solo) a ignorare o a guardare con sospetto le fiabe popolari italiane – e così una marea di tanta altra narrativa – raccolte ad esempio da Italo Calvino, quelle in cui i padri padroni, i diavoli, gli orchi e i draghi (maschi etero tossici) vengono neutralizzati da protagoniste femminili di sublime scaltrezza.

Perché studiare le fiabe in maniera critica e intelligente deve voler dire anche conoscere il linguista e antropologo russo Vladimir Propp, che teorizzò un celebre schema frutto di studio sulle narrazioni fiabesche nelle società tribali e sui riti di iniziazione, e che proprio da qui trasse una struttura che propose come modello per ogni narrazione, identificando 31 funzioni note come sequenza di Propp e inalterabili nell’ordine che compongono il racconto. Tali funzioni rappresentano una situazione tipica nello svolgimento della trama di una fiaba, riferendosi ai personaggi e ai loro precisi ruoli, spiegando che è importante quello che fa il personaggio piuttosto di chi è il personaggio: se quindi l’eroe è una fanciulla (Biancaneve, Cenerentola), un fanciullo o un orso è indifferente: a caratterizzare lo svolgimento della trama è l’azione che l’eroe protagonista compie attraverso le sue azioni.

E perché non si deve mai, mai pensare che praticare la cancel culture sia la strada migliore.

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