Febbraio ha fotografato l’attuale stato di salute dell’Italia e di alcuni (fondamentali) Paesi europei. In poco meno di dieci giorni abbiamo potuto constatare la debolezza – sul fronte economico – del nostro Paese, della Francia e della Germania. Nonostante i singoli dati diffusi, le piazze finanziarie del Vecchio continente hanno messo a segno nuovi massimi di breve periodo registrando livelli di prezzo apparentemente incomprensibili se contestualizzati a tale caotico scenario. L’indice Dax di Francoforte ha segnato nuovi massimi approssimandosi alla soglia dei 14.000 punti, mentre il nostro Ftse Mib giunto pressoché ai 25.000 punti, ha rivisto le quotazioni del lontano ottobre 2008. Sulla base di questi ultimi rilievi sarebbe spontaneo affiancarne il buono stato di salute dell’economia del Paese, invece, la realtà è assai diversa. Completamente opposta.
Partendo dai dati europei di Francia e Germania si riscontra una significativa frenata della produzione industriale (rif. dicembre 2019): -2,8% e -3,5%. Per i tedeschi si può parlare di un vero e proprio stato di perdurata crisi. Noi stessi, a marzo dello scorso anno, avevamo prospettato tale possibile destino: «La storica locomotiva tedesca sembra rallentare la propria corsa. Una corsa che sembra ormai rappresentare non più l’allungo solitario di un Paese in fuga rispetto ai restanti rivali (gli altri paesi dell’Europa) che invece arrancano, ma la Germania, questa Germania, appare invece avere più le sembianze di un corridore stremato e prossimo al fotofinish di un traguardo che separa il suo stato di economia forte (quella del passato) da quello di economia debole e giunta all’inevitabile fase recessiva (quella del presente)».
Anche lo scorso settembre, sempre da queste nostre pagine, sottolineavamo l’arretramento economico tedesco: «I numeri sono chiari e agli occhi di tutti: la celebre locomotiva d’Europa non viaggia come sua consuetudine storica; i recenti dati sul Pil nazionale ne certificano il suo rallentamento, ossia l’anticamera a un successivo e potenziale stato di cosiddetta recessione tecnica». Oggi, anno 2020, la temuta recessione tecnica è ormai imminente. Ma nonostante questo, Francoforte, attraverso il suo principale mercato azionario, ha ritoccato i suoi record storici.
E ora arriviamo a noi, al presente, al nostro Paese. La situazione non migliora e fa eco alle sopracitate rilevazioni. Anche la produzione industriale italiana evidenzia una pesante flessione e Istat, attraverso il consueto comunicato, ne ha certificato l’entità: «A dicembre 2019 si stima che l’indice destagionalizzato della produzione industriale diminuisca del 2,7% rispetto a novembre, mentre per l’indice corretto per gli effetti di calendario si stima una flessione, in termini tendenziali, del 4,3%». Nel medesimo rapporto, il denominato “Commento” ci riporta al passato: «Nel complesso del 2019 la produzione industriale ha mostrato una diminuzione rispetto all’anno precedente, la prima dal 2014». Un passo indietro di cinque anni.
Rimanendo tra i conti di casa nostra, in queste recenti giornate, abbiamo potuto apprendere l’entità (modesta) della stima preliminare del Pil. Sempre Istat: «Nel quarto trimestre del 2019 si stima che il prodotto interno lordo (Pil), espresso in valori concatenati con anno di riferimento 2015, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, sia diminuito dello 0,3% rispetto al trimestre precedente e sia rimasto invariato in termini tendenziali». Comportando una variazione acquisita per il 2020 pari a -0,20%. A corollario di tale cronaca, la recente (scontata) conferma dell’agenzia Fitch: rating – sempre – “BBB” e outlook – sempre – negativo.
Nonostante il negativo andamento dell’intero aggregato (Produzione industriale, Pil, rating & outlook), gli investitori hanno riversato la loro liquidità sul mercato domestico del debito pubblico italiano: a gennaio, in sede di titolo trentennale, c’è stata una richiesta pari a 47 miliardi rispetto a un’offerta di soli 7. Di qualche ora fa, la domanda di oltre 50 miliardi (rispetto ai 9 collocati), per il Btp a 15 anni. Sembra tutto paradossale, ma la realtà è questa: a perdite registrate dalla “economia” corrispondono invece guadagni dalla “finanza”. Oppure, cambiandone la forma, ci troviamo nuovamente a commentare «I grandi affari “irrazionali” dei mercati grazie alla crisi italiana».
Attenzione: tutto questo non potrà durare all’infinito.