La costruzione di mondi immaginari impossibili e perfetti è ciò che ha reso grandi i film Pixar: l’universo dei giocattoli in Toy Story, quello degli insetti di A Bug’s Life, le automobili di Cars e i mostri infantili di Monsters & co., fino al futuro inumano di Wall-E e ai meandri della mente umana di Inside Out. In Soul, l’ultimo film della casa di produzione digitale di Disney, è proprio la costruzione a frenare la riuscita del film.
Scelto dalla Festa del cinema di Roma per aprire l’edizione 2020 (con codazzo di polemiche a seguito della decisione di Disney di lanciarlo in streaming e non in sala), il film ha un’idea di partenza che sembra un po’ Inside Out con l’anima e l’Altro Mondo al posto del cervello umano e della psiche. Il protagonista infatti è un aspirante musicista che in molti definirebbero fallito che sta per suonare nella band di una grande jazzista: ma proprio quel giorno cade in un tombino e finisce in coma. Da lì, la sua anima si aggira tra Al di là e limbi vari per cercare di tornare sulla Terra a cogliere quell’occasione.
Scritto da Pete Docter e Kemp Powers (anche registi) con Mike Jones, Soul parte come un’avventura tra i possibili universi che seguono la vita e diventa però una commedia fantasy sullo scambio di personalità e la seconda occasione come tantissime ce ne sono state nel cinema degli anni ’70 e ’80, intrigante solo per il lavoro fatto su New York.
Sono due i grandi limiti del film e risiedono entrambi nella scrittura: da una parte, Soul è un film estremamente ambizioso e adulto, la costruzione del mondo narrativo di cui dicevo è molto articolata, cerca di fondere e smussare concezioni diversissime del post-morte, dello spirito, dell’anima, vuole far convergere mistiche diversissime, ma per farlo deve perdere moltissimo tempo a spiegarlo, sacrificando il divertimento del gioco all’illustrazione delle sue regole; dall’altra, proprio perché pensato per gli adulti – seppure nel tono giocoso e nei colori brillanti – si concentra quasi esclusivamente sul “messaggio”, fa della morale insita in ogni favola l’unico, sottolineato, asfissiante fine del film intero, a scapito della fantasia, della meraviglia.
Basti pensare agli altri film Pixar dalla struttura simile per accorgersi di cosa manca in Soul: una naturalezza d’approccio che trasformava il meccanismo in poesia, il gioco in emozione, mentre qui avviene il contrario ed è un paradosso visto che per tutto il film si usa il jazz e le sue improvvisazioni come metafora della bellezza della vita, musica che ha bisogno di perdersi per rivelare la propria bellezza mentre tutto il film non riesce mai a lasciarsi andare. È indicativo che i momenti migliori siano quelli in cui si abbandona il foto-realismo e l’umanità e si raffigura l’Altrove, i suoi personaggi, i linguaggi possibili dell’animazione e del disegno digitali.
Perché quando l’aderenza alla realtà fisica prende il sopravvento, Docter – a differenza del suo Up – non riesce a renderla magica, sembra girare a vuoto, ha bisogno di facili soluzioni narrative per dare un senso un po’ banale al film. Per tramutarlo da favola in parabola, purtroppo.