Che l’Italia abbia bisogno di riforme ormai è un’affermazione talmente condivisa da essere altrettanto banale, quanto illusoria. Il problema è che quando si parla di riforme ognuno va per la propria strada salvo cercare gattopardianamente di cambiare tutto per non cambiare nulla.

Il problema di fondo è che il Paese è incrostato fino alla radici di diritti acquisti, diffusi privilegi, posizioni di rendita e volontà di conservazione. E diventa quasi impossibile anche solo delineare una strada per una politica che non sia solo ricerca del consenso attraverso la sollecitazione di passioni ed emozioni.



Con una trasformazione della politica che non è solo italiana. La svolta più sottilmente pericolosa è segnalata da fatto che nei primi anni di questo terzo millennio il fondamento stesso della democrazia rappresentativa, cioè il voto, si è progressivamente trasformato da elemento di sostegno a definiti programmi di governo ad espressione di protesta e di aperta critica verso le classi dirigenti al potere. È stato così per l’elezione di Trump, per il voto inglese sulla Brexit, per le elezioni italiane del 4 marzo 2018 con l’avanzata delle forze apertamente populiste sulla base di una ben costruita insoddisfazione verso le politiche dei governi unita alla preoccupazione di fattori nuovi come l’immigrazione o la globalizzazione.



Vi sono peraltro elementi significativi che caratterizzano il caso italiano. Quello più clamoroso riguarda la percezione della realtà da parte dei cittadini. Gli italiani hanno il non invidiabile primato mondiale nell’aver un giudizio distorto sui fatti: si va dal tasso di disoccupazione al numero di omicidi, fino all’incidenza del diabete e dell’immigrazione. È il frutto di un livello d’istruzione che resta molto basso unito ad una progressiva perdita di qualità e della moderna dieta mediatica in cui primeggia, accanto alla Tv, l’informazione “fai-da-te” su Internet e sui social media.



Ci sono tutte le premesse per affermare che la stessa democrazia è in pericolo, così come sono in pericolo le tradizionali istituzioni rappresentative messe sotto accusa da uno spirito di anti-politica che sembra aprire la strada a soluzioni autoritarie. E non c’è bisogno di citare chi ha chiesto un plebiscito per ottenere i pieni poteri.

Va quindi guardato almeno con simpatia chi si propone di avviare una riflessione sulla strada da seguire “Per salvare la democrazia in Italia”, questo il titolo del libro di Franco Capelli (Rubbettino, 2019). Un saggio sulla cultura dell’etica e della legalità, scritto da un docente e avvocato, che costituisce insieme un ampio libro di storia, un’analisi sociale, un trattato di diritto costituzionale. Con una linea di fondo che mira a valorizzare la dimensione della persona e insieme delle comunità. In quest’ottica assumono una particolare importanza due valori: quello di una politica vicina al popolo attraverso le istituzioni locali e quello di una società in cui la bussola possa diventare il bene comune, capace di accomunare la dimensione dell’impresa privata tradizionale con il Terzo settore, il volontariato, il non profit.

“È notorio – scrive Capelli – che il desiderio di potere eccita la vanità, stimola l’orgoglio, esalta i difetti umani ed accentua le debolezze delle persone che lo gestiscono, attenuando la capacità di autocontrollo che solo la saggezza è in grado di assicurare e imporre. Ed è proprio la saggezza la dote che solitamente manca in chi ama il potere e possiede le altre qualità per conquistarlo”.

È la saggezza che può rendere concreta quella dimensione etica che troppo spesso è messa in secondo piano. È la saggezza che può richiamare alla responsabilità e al senso della politica come servizio. Il vasto saggio di Fausto Capelli diventa così un filo d’Arianna per affrontare in maniera costruttiva il labirinto della società attuale.

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