L’ospedale universitario di Rotterdam è stato ieri teatro di un violento attacco da parte di uno studente trentaduenne che, ancora per motivi ignoti, ha dapprima appiccato il fuoco in una casa vicina al nosocomio per poi spostarsi all’interno dell’edificio e iniziare a sparare. Tre morti è il bilancio provvisorio di un fatto che ha gettato nel panico l’intera comunità ospedaliera e il centro della cittadina olandese. Profondo cordoglio per le vittime, infine, è stato espresso da parte dei reali e delle autorità dell’Unione Europea.
Che cosa spinga un uomo ad un simile gesto di follia e di violenza è difficile da dirsi e saranno solo le indagini a chiarire il contesto in cui è giusto leggere l’azione. Quello che però si può dire, senza timore di smentita, è che eventi simili hanno una fortissima valenza simbolica: chi li compie intende esprimere qualcosa che ha dentro e che non è più in grado di gestire. Le azioni dell’uomo sono l’eco di quello che l’uomo vive, al punto che l’essere umano può comprendere sé stesso soltanto guardandosi in azione. Se questo principio è vero, allora diventa molto più difficile decifrare la sparatoria di Rotterdam, perché un tale approccio impedisce ogni spiegazione sociologica dei fatti e ogni riduzione psicologica dei moventi. La questione è umana, ha a che fare con la vita di un essere umano che butta fuori con tutta la forza distruttrice di cui è capace ciò che lo abita e che egli non è più capace di gestire.
Sempre più spesso le generazioni cresciute all’ombra del millennio si ritrovano povere di strumenti per esprimere il proprio mondo interiore. Questa povertà non è, però, solo un fatto generazionale – e quindi, ancora una volta, sociologico – ma riguarda tutti. Gli strumenti per raccontare quello che siamo e quello che viviamo si imparano non sui libri, e neppure in perfette lezioni di psicologia, ma dentro lo spazio di un bene che per molti secoli è coinciso con la famiglia.
È all’interno di una casa che i bambini apprendono come dirsi, come manifestarsi, come amare. Il crollo della famiglia come luogo di correzione e di continuo confronto, sostituito da uno spazio di iperprotezione fine a sé stesso, impoverisce la personalità dei ragazzi e li espone a un’incapacità di fondo, quella di portare all’esterno il proprio mondo interiore.
E qui interviene un secondo tipo di considerazione: i bimbi iperprotetti non crescono soltanto ostaggio di un’incomunicabilità, ma anche di una conseguente solitudine per cui il rapporto con l’altro è sempre problematico, sempre fondato sul sospetto e sulla sfiducia.
È chiaro che tutto questo richiede lo svilupparsi di un’abilità nuova da parte degli adulti e di chi educa: la capacità di ricollegare i gesti che un giovane, un adolescente o un bambino compie con quello che davvero vogliono esprimere. I ragazzi oggi ci parlano tagliandosi, manifestando disordine nell’alimentazione, nella sessualità, nel rapporto con i soldi, esplodendo in improvvisi raptus di violenza o di scurrilità verbale. In Italia lo stesso uso della bestemmia rappresenta spesso una scorciatoia per non affrontare tutta la strada che occorre fare per raccontare quello che uno si porta dentro. La rabbia assomiglia sempre di più ad una violenza meteorologica, parente di quelle bombe d’acqua improvvise che scaricano su un frammento piccolo di realtà l’impeto e la forza di un’energia accumulata chissà dove.
L’attentatore di Rotterdam può avere agito per mille motivi, ma è certamente anche lui segnato da questa afasia dei gesti, da questa inettitudine emotiva. I fatti scatenanti possono essere infiniti, ma se una comunità – un villaggio – non è capace di riconnettere quello che uno fa con quello che uno cerca e desidera, rimarrà sempre al palo e non riuscirà mai a entrare in dialogo radicale con il cuore dell’altro, qualunque cosa faccia, qualunque cosa rompa.
La questione, tuttavia, si estende all’adulto stesso e alle decine di azioni che manifestano anche in lui questa fragilità, questa indigenza dei sentimenti. L’urgenza del mondo contemporaneo è quella di ricostruire case in cui gli uomini possano recuperare un rapporto vero con sé stessi, un’autenticità di fondo rispetto a quello che sentono e che vivono.
Presto la polizia olandese chiarirà il mistero di Rotterdam, ma sul tavolo rimarrà un mistero ben più grande: quello che tocca da vicino ogni uomo e ogni donna di questo secolo, ossia come imparare a guardarsi e a guardare senza provare odio, senza provare rancore.
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