Due poliziotti, due trentenni, sono stati barbaramente uccisi ieri pomeriggio verso le 17 a Trieste in uno scontro a fuoco con due rapinatori che avevano arrestato. I particolari della vicenda non sono ancora del tutto chiari. Il Presidente della Repubblica Mattarella ha inviato un messaggio di cordoglio e vicinanza mentre si sono immediatamente recati nel capoluogo del Friuli-Venezia Giulia la ministra dell’Interno Lamorgese e il capo della Polizia; il sindaco di Trieste ha dichiarato lutto cittadino.
Una nota della Questura ha riferito che i responsabili della sparatoria, due fratelli, la mattina di ieri avevano compiuto una rapina in scooter. Catturati dopo un’attenta ricerca e condotti in Questura dopo qualche ora, sono riusciti a distrarre gli agenti e ad esplodere verso di loro più colpi a bruciapelo, tentando di nuovo la fuga e venendo di nuovo bloccati, questa volta definitivamente.
Secondo alcuni racconti, uno dei fermati avrebbe finto di voler andare al bagno, distraendo un poliziotto al quale avrebbe sottratto l’arma con cui poi avrebbe compiuto gli omicidi. La gente che era per strada ha riferito di numerosi colpi d’arma da fuoco, di urla e di sirene della polizia: tutti elementi importanti che si stanno chiarendo in queste ore.
Ciò che non ha purtroppo bisogno di ulteriore indagini è l’identità dei due eroici ragazzi assassinati: si chiamavano Matteo Demenego e Pierluigi Rotta e sono caduti “mentre erano impegnati in una operazione di servizio”. Così scrive il nostro Presidente nel suo messaggio e questa espressione – morire in servizio – che esprime con precisione chirurgica quanto avvenuto, mi colpisce come una sassata.
Perché a prima vista parrebbe che il lavoro, il compimento del proprio dovere, dovrebbe essere una “cosa normale”, che non è causa di morte. Noi infatti, istintivamente, associamo la morte a eventi straordinari: ascensioni montuose, imprese marittime, disastri naturali o disastri causati dall’imperizia umana. E invece a Trieste ragazzi all’inizio della vita, due uomini come noi, due fratelli, ci dicono che “essere in servizio”, compiere il proprio dovere fino in fondo, fare quello che va fatto senza sconti e senza tentennamenti, non scappare davanti a chi si comporta in maniera violenta e contro la legge ma anzi cercare di fermarlo, può comportare la morte.
Dovremmo imparare da Matteo e Pierluigi che, ad essere davvero in servizio, ci si può anche lasciare la pelle. A volte si favoleggia di formule più o meno magiche, di oroscopi e “profezie”, che permetterebbero di conoscere il momento della propria morte: sono sciocchezze perché non ha senso sapere “la data” della propria morte. Molto più sensato invece è mettere in conto che quando mi decido a servire fino in fondo, quando voglio senza tentennamenti compiere il mio dovere, mi potrebbe accadere di morire. Matteo Demenego e Pierluigi Rotta conoscevano i rischi del proprio lavoro e hanno tirato dritto, hanno affrontato il rischio sapendo che la morte non dipende da noi ma dipende da noi vivere in modo consapevole la propria vita, vivere con pienezza e donandosi agli altri: e questo può significare ingaggiare una partita a scacchi con la morte che riempie di senso ogni vita. Anche quella che, vissuta in modo routinario e pavido, può altrimenti essere grigia e inutile.