Caro direttore,
“terrorismo domestico”, così è ormai definito, ed è sulle labbra di quasi tutti, soprattutto in queste ore in cui si contano i morti e i feriti dei due attacchi compiuti in Ohio e in Texas in meno di 24 ore, a cui vanno aggiunti tre morti e 16 feriti al festival dell’aglio di neanche una settimana fa in California. Sconvolto, il candidato presidenziale del Texas, Beto O’Rourke, non ha trovato le parole di fronte ai giornalisti subito dopo l’accaduto e non ha nascosto le lacrime. Sono, mentre scrivo, almeno 20 i morti e circa 24 i feriti.



Neppure io trovo le parole, mi tengo l’orrore che sento, e l’Italia che non dimentica il suo non distante passato di terrore può forse capire. Abbiamo visto, negli Stati Uniti, il susseguirsi e il crescendo di queste uccisioni di massa e ne siamo rimasti increduli, soprattutto se ci è capitato di essere vicini, come quando mi trovavo nella scuola dove insegnavo, a solo mezz’ora dalla Sandy Hook Elementary School, in Connecticut. Quel giorno le vittime furono i più piccoli: 20 bimbi fra i 6 e i 7 anni e sei adulti. Era la mattina del 14 dicembre del 2012 quando un ventenne, dopo aver ucciso sua madre, si avviò alla scuola dove fece il massacro per poi suicidarsi. Come si fa a parlare di queste tragedie? 



Potrei provare a descrivere ciò che avvenne in quella che era cominciata come una normalissima giornata di scuola. La notizia di ciò che accadeva a pochi chilometri arrivò presto. Il meccanismo di lockdown fu messo immediatamente in funzione, una pratica diventata ormai un esercizio annuale, assieme a quello tradizionale dell’incendio con l’allarme automatico che faceva arrivare i pompieri in pochi minuti. Durante questi interventi, mentre loro ispezionavano l’edificio (non si veniva mai informati se si trattava di un vero o falso allarme), tutti noi stavamo fuori in file perfette e in totale silenzio finché non veniva dato il permesso di rientrare. Dopo l’11 settembre era prevista anche l’evacuazione, in un luogo scelto a cui si doveva poter arrivare a piedi. 



Lockdown (che traduco quasi letteralmente: chiusi dentro) significa bloccare l’accesso e rimanere chiusi in isolamento. Tutti dentro le aule, con ogni entrata alla scuola sbarrata (e persone di guardia ad ogni ingresso la volta di Sandy Hook). In classe, la materia venne abbandonata per parlare e tenere gli studenti al sicuro e tranquilli. Lasciarli esprimersi era il consiglio. Alcune studentesse avevano avuto amichette in passato nella scuola di Newtown. Trenta minuti di distanza è nulla negli States, ed era il cuore del Connecticut così selvaggiamente aggredito. Si tornò a casa choccati e così si rimase per giorni, mentre i giornali aggiungevano dettagli del massacro.

Ci dicono che in quest’anno ci sono stati 32 “mass shootings” e c’è chi, qui in Italia, ogni tanto mi dice che l’America è un paese violento. Mi duole sentire questa facile critica. Io non trovo parole per questo fenomeno recente, e non le voglio cercare perché correrei il rischio di banalizzare, semplificare e magari anche finire per fare un commento razzista. Rimango ancora e sempre stupefatta, come quando sento il numero di donne che in Italia vengono uccise dai loro uomini. Non pronuncio insensati e assurdi giudizi come concludere che l’Italia è un paese femminicida.

Si parlerà per l’ennesima volta delle armi letali di facile acquisto, di ciò che viene chiamato “hate crime”, del razzismo pronunciato e incoraggiato da chi governa il paese; si faranno analisi, commenti, riflessioni. Sono invece le spontanee e immediate donazione di sangue e di cibo, di appoggio psicologico e spirituale, assieme alle migliaia di candele accese dai cittadini che mi parlano e manifestano la straordinaria umanità, di cui sono stata testimone più volte, di una nazione che sta passando una feroce crisi sociale e politica. Posso per ora solo ascoltare il silenzio di quelle parole.