Spari sulla folla, di domenica, in un centro commerciale. Copenaghen si risveglia nel 2015, quando una serie di attentati di matrice islamica misero in ginocchio le forze emotive della città. La differenza, questa volta, è che non ci sono certezze. A sparare è stato un ventiduenne fermato quasi subito dalla polizia, apparentemente senza movente.



Nessuno può affermare con certezza le ragioni di quanto accaduto. La capitale nordica, al netto di tutto, si è comunque fermata: eventi istituzionali bloccati, metropolitana ferma, centri commerciali serrati. E poi, non bisogna dimenticarlo, la conta dei feriti e delle vittime. Un numero indefinito che fa dire alla prima cittadina Andersen che la situazione è tutt’ora tragica.



I fatti di oggi restituiscono al continente un’immagine della società occidentale profondamente insicura e incerta di sé. Scampata alla crisi finanziaria degli anni duemila, travolta dalla prima grande ondata islamista, tenuta in scacco dalla marea populista, rimasta ferita dalla pandemia e dalla guerra delle materie prime contro la Russia, l’Europa si rivela fragile, nelle mani di chiunque possa imbracciare un’arma e metterla nuovamente in un incubo, evocando con un solo gesto tutti i fantasmi di un secolo – il ventunesimo – che sta cambiando profondamente la fisionomia della cultura e dell’identità occidentale.



Ci portiamo appresso dei mostri che ci inseguono e minacciano il nostro futuro, la nostra libertà, le nostre conquiste. Siamo dilaniati da lotte profonde, da una concezione profondamente atea del mondo che si scontra con una altrettanto radicalmente religiosa, facendo venire meno quella terra di mezzo dove credenti e non possono immaginare e costruire un mondo diverso.

Il conflitto non è l’igiene del mondo, come dicevano alcuni all’inizio del novecento, né la chiave necessaria per accendere il progresso. La dialettica e il conflitto sono oggi le armi con cui gli eredi delle grandi culture del passato distruggono le loro conquiste, le proprie idee, i loro sogni. Il risultato è una fragilità diffusa per cui chiunque può mettere con le spalle al muro un’intera città, un paese, un sistema politico.

Copenaghen si risveglia vulnerabile, attonita, impaurita. Ed è un monito, oggi, per tutte le altre capitali d’Europa. Non si può pensare di divorare se stessi e la propria storia senza pagare il prezzo – salatissimo – di una stagione terribile e senza via d’uscita. La stagione della paura.

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