Come era ampiamente previsto, la Corte costituzionale ha stabilito che è illegittima l’applicazione retroattiva di una delle norme dello “spazzacorrotti”, ovvero la legge che ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione fra quelli per i quali non si può sospendere preventivamente l’esecuzione. Condizione che prima si otteneva con la presentazione di una istanza di misure alternative alla detenzione.



La decisione della Corte dà ragione a chi aveva sollevato l’incompatibilità della nuova norma con l’articolo 25 della Costituzione, che prevede che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

All’udienza dell’altro giorno, a sorpresa, anche l’Avvocatura dello Stato, che rappresentava la Presidenza del Consiglio, ha formulato richiesta di declaratoria di incostituzionalità, disconoscendo di fatto l’operato dello stesso Governo giallo-verde che quella riforma aveva con enfasi promulgato circa un anno e mezzo fa.



All’esito della decisione, chiariamolo subito, la norma fatta oggetto di sindacato di costituzionalità resta valida, ma applicabile unicamente a chi abbia commesso i reati successivamente all’entrata in vigore della legge.

Non è facile in questa occasione separare la parte giuridica da quella politica, anche se un’informazione corretta deve sforzarsi di operare proprio in tal senso.

Sul piano giuridico, la sentenza non solleva nessun particolare stupore e quindi nessun rilievo può essere mosso nei riguardi dei giudici delle leggi. La decisione è certamente coerente con i principi e le regole della Costituzione e del sistema giuridico in generale. Moltissimi addetti ai lavori avevano nell’immediato espresso stupore nei riguardi delle modalità con cui una legittima scelta del legislatore di stringere le maglie della fase esecutiva delle condanne era stata disciplinata senza la previsione di una norma intertemporale. Come dire, va bene il principio (restringere le maglie dell’esecuzione), ma una norma che cambia il regime di esecuzione delle condanne deve prevedere un regime intertemporale di validità, perché chi aveva legittimamente contato su quel beneficio nel momento in cui ha gestito la sua strategia difensiva non può vedere cambiate le regole del gioco in corso. Funziona così in uno Stato di diritto, anche se la nuova disciplina è più “giusta” (ammesso che lo sia) della vecchia.



La norma prevede ora che chi viene condannato per reati contro la pubblica amministrazione, così come accade già da tempo per reati di grave allarme sociale come rapine e stupri, non può godere del beneficio della provvisoria sospensione della pena per l’accesso a una misura alternativa che eviti l’ingresso in carcere.

D’altronde, la decisione della Corte costituzionale è giunta a seguito di una molteplice richiesta formulata da moltissimi giudici italiani e da ben nove tribunali: quelli di Venezia, Lecce, Taranto, Brindisi, Cagliari, Napoli, Caltanissetta, Potenza e Salerno. Tutti avevano espresso dubbi su quella norma e “in particolare, è stata denunciata la mancanza di una disciplina transitoria – come poi si legge nella nota della Consulta – che impedisca l’applicazione delle nuove norme ai condannati per un reato commesso prima dell’entrata in vigore della legge n. 3/2019”.

I giudici della Consulta hanno così preso atto che, secondo la costante interpretazione giurisprudenziale, le modifiche peggiorative della disciplina sulle misure alternative alla detenzione vengono applicate retroattivamente, e che questo principio è stato sinora seguito dalla giurisprudenza anche con riferimento alla legge “Spazzacorrotti”. Interpretazione ritenuta costituzionalmente illegittima con riferimento alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione successivo alla sentenza di condanna.

Secondo la Corte, infatti, l’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con il principio di legalità delle pene, sancito dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione.

Sul fronte politico, al contrario, sono possibili diverse ipotesi di lettura, che in questa sede possiamo solo accennare e che comunque affidiamo alla riflessione dei lettori. Ad esempio, è fin troppo facile sovrapporre questa vicenda con quella relativa alla prescrizione, che si sta consumando, stucchevolmente, ormai da mesi. Tuttavia la decisione della Corte rappresenta un chiaro messaggio per il legislatore, nella piena fisiologia del confronto fra istituzioni nell’ambito del nostro sistema caratterizzato da pesi e contrappesi.

Il messaggio è che le leggi vanno fatte con attenzione, ragionevolezza, approfondita elaborazione. Il legislatore della “spazzacorrotti” ha avuto il torto di non riflettere sulle conseguenze di una mancata previsione di una norma intertemporale. Effetti che hanno in questi mesi avuto come conseguenza che alcuni giudici hanno applicato la nuova legge indiscriminatamente, altri hanno sollevato questione di costituzionalità, altri ancora l’hanno di fatto disapplicata, anticipando la decisione della stessa Corte.

Il fine della legge poteva anche essere condivisibile (equiparando corruttori a stupratori o rapinatori, mi si consenta la semplificazione), ma l’incertezza che ha determinato era prevedibile ed evitabile; anzi, l’incertezza ha determinato nuove ingiustizie e nuove diseguaglianze.

Riflettiamoci tutti.