Ospite del Meeting di Rimini, dove ha partecipato all’incontro “Aids, un problema culturale”, Edward Green (Direttore dell’AIDS Prevention Research Project alla Harvard University) parla a ilsussidiario.net di quali siano le migliori armi per prevenire e combattere il virus.

Professor Green, a che punto è la situazione dell’AIDS?



La diffusione dell’AIDS nel mondo sta diminuendo e il tasso di nuove infezioni sta scendendo ormai da circa undici anni. Questa discesa è stata finalmente riconosciuta da UN AIDS nel 2007. Il continuare ad affermare che la diffusione dell’AIDS diventava sempre peggiore serviva a ottenere sempre più soldi (in effetti, l’AIDS in Africa raggiunse il suo picco attorno al 2000). Vi sono tuttavia alcuni Paesi in cui l’AIDS continua a crescere e gli Stati Uniti sono tra questi. E così l’America continua a presentare agli africani il proprio metodo, a dir loro cosa debbono fare, e noi non abbiamo risolto il problema nel nostro Paese. Dovremmo invece andare in ginocchio in Uganda a imparare.



Vi sono altri Stati in Africa in cui l’AIDS continua a diminuire, come Zambia, Kenya, Zimbabwe, Etiopia, Malawi, e in ognuno di questi casi la proporzione di uomini e donne che dichiarano di avere più di un partner sessuale è diminuita significativamente qualche anno prima che si riscontrasse la discesa nella diffusione della malattia.

Lei ha però segnalato alcune peculiarità dell’Africa rispetto ad altre aree…

Anche in Africa vi sono due tipologie di epidemia, una generalizzata e una concentrata: la prima si ha quando l’AIDS si riscontra nella popolazione in generale, la seconda quando sono coinvolti solo particolari gruppi, come omosessuali, drogati o prostitute. Solo in Paesi dove l’AIDS è concentrato tra le prostitute, e in particolare quelle che esercitano in case chiuse, per esempio Thailandia e Cambogia, si può avere un effetto a livello generale imponendo l’uso del preservativo.



Al tempo del dibattito suscitato dalle parole del Papa sull’uso dei preservativi come strumento di lotta all’AIDS, lei condivise sostanzialmente la sua posizione su una base scientifica, non su degli a priori ideologici o morali. Può approfondire le ragioni di questa sua posizione?

Direi che il Papa probabilmente pensa che i preservativi non siano la risposta in nessuna parte del mondo, mentre io sostengo, su base scientifica, che hanno funzionato in alcuni Paesi come Thailandia e Cambogia. La ragione per cui affermai pubblicamente il mio accordo con il Papa fu perché non parlò di astinenza, ma di responsabilità, di fedeltà, di matrimonio. Personalmente non sarei intervenuto, ma mi fu chiesto da un paio di giornali e dissi che il Papa aveva sostanzialmente ragione, anche se sapevo che la sua affermazione che i preservativi potevano peggiorare la situazione avrebbe sollevato pesanti critiche. Bene, di fatto per anni si è vista una correlazione tra aumento dell’uso dei preservativi e aumento dei tassi di infezione, e gli ammalati di AIDS tendono a essere utilizzatori di preservativi. È una conseguenza di ciò che si può definire “compensazione del rischio”, per cui se si diminuisce il rischio attraverso la tecnologia si finisce per essere disposti ad assumere maggiori rischi

La First Lady dell’Uganda, Janet Museveni, commentando la situazione del suo Paese sostenne l’importanza dell’educazione nella lotta contro l’AIDS. Qual è la sua opinione in proposito?

Penso che dovrebbe essere la prima arma per combattere l’AIDS. L’Uganda non aveva soldi per le medicine e il presidente disse che non potevano avere neppure medicine contro la malaria o perfino l’aspirina. Impossibile quindi avere preservativi per tutti e perciò non potevano essere la soluzione, che stava invece in parole come rispetto per tua moglie, rispetto per tuo marito, che i bambini rimanessero tali rimandando l’inizio delle esperienze sessuali, perché c’è un mucchio di tempo dopo, da adulti, per il sesso. E poi facendo sì che la gente avesse paura di contrarre l’AIDS. Tutto questo è contrario all’approccio abituale verso l’AIDS basato sul fatto che il sesso è divertente. Attualmente il Paese in cui il tasso di infezione è più alto è il Swaziland, dove la pubblicità recita:” Preservativi, dove c’è il divertimento”.

Come è stata accolta questa sua posizione?

Ottenni personalmente una certa fama con la mia azione nei Caraibi e nella Repubblica Dominicana nel 1988. Lì il problema era concentrato tra le prostitute e il programma di distribuzione di preservativi molto consistente. La mia valutazione di queste iniziative e quanto scrissi su di esso mi catapultò su tutti i media. Ma quando tornai dalla mia prima settimana in Uganda e parlai di quanto avevo visto, tutti gli esperti al di fuori dell’Uganda mi diedero torto. Quando fui sicuro che i tassi di infezione stavano scendendo, decisi di far guerra alla mafia dell’AIDS. C’è un articolo del 2001 su Forbes in cui dichiaro la mia jihad contro questa mafia. È stata una cosa dolorosa, ho degli amici che non mi parlano più, molti pensano che io sia un traditore. Io provengo dalla pianificazione famigliare, ambienti in cui la Chiesa cattolica è vista come un nemico e si pensa che se si è d’accordo con i programmi ABC (Abstinence, Be faithful, Condom) si è un sostenitore di Bush. Cosa che io certamente non sono.

È strano che in un’epoca dove la scienza sembrerebbe intoccabile e indiscutibile vi sia un così deciso rifiuto a discutere dati scientifici quando si parla di AIDS.

Su questo sto scrivendo due libri, uno dal titolo AIDS and Ideology e il secondo AIDS and Behavior. Nel primo in particolare in particolare sostengo che se le cose non sono cambiate è in parte perché c’è un’industria di parecchi milioni di dollari l’anno che vuole continuare a esistere, e in parte per la persistente ideologia per la quale la libertà sessuale è più importante della vita umana.