Oggi al Meeting di Rimini per parlare su “Il futuro delle città”, non risparmia critiche alla riforma federale dello stato, il sindaco di Torino Sergio Chiamparino. «La riforma priva i comuni della più elementare norma di autonomia, che è proprio l’autonomia fiscale». Ed è ancor più critico verso il suo partito. Il paradosso è che il Pd – dice il sindaco – invece di essere una forza realmente progressista, è diventato il riferimento dei ceti protetti e garantiti dai rischi della globalizzazione, perdendo il contatto con le classi più produttive del paese.
«Voglio una pistola puntata alla tempia – ha detto Raffaele Lombardo (Mpa) – che ci faccia ‘spontaneamente’ essere virtuosi». Il federalismo riuscirà a cambiare in meglio la gestione dello stato, sud compreso?
Lombardo ha usato un paragone un po’ spinto, però è certamente efficace e indica la strada che bisogna scegliere, che è quella della responsabilità. In generale penso che quella del federalismo sia una sfida da cogliere, perché sono convinto che oggi una nuova unità del paese la si possa costruire solo attraverso un insieme di autonomie responsabili. Devo dire che però ci sono due cose che non mi convincono.
Di che si tratta?
È una contraddizione disegnare un paese federalista e autonomista privando però i comuni della più elementare norma di autonomia, che è proprio l’autonomia fiscale, non crede? L’Anci ha chiesto che il primo dei decreti attuativi della riforma di Calderoli sia quello che istituisce la nuova tassazione autonoma per i comuni; vedremo cosa intende fare Calderoli.
E il secondo motivo di perplessità?
L’altra contraddizione è la sensazione di disagio che alcuni hanno – ma è bipartisan: penso a svariati sindaci leghisti, che hanno avuto un po’ da ridire – su come sono state trattate alcune amministrazioni del Mezzogiorno. In modo un po’ particolaristico, direi.
A cosa pensa in particolare?
Da ultimo ho visto che nel decreto anticrisi sono stati dati 150 milioni per sanare il buco dello smaltimento rifiuti a Palermo. Non mi sembra un provvedimento consono all’idea di responsabilità.
Lei al Meeting parlerà della città. I sindaci fanno ancora politica o essere sindaco vuol solo dire fare amministrazione e gestire servizi?
No, su questo ho molti dubbi. È certamente vero che nella città la politica è amministrazione, ma scegliere a cosa dare la priorità è una scelta politica molto importante: pensiamo ai servizi sociali. Le città oggi sono il luogo principale della coesione sociale, dove ci sono le potenzialità e le risorse, ma anche dove si avvertono di più le contraddizioni dello sviluppo.
Un altro nodo controverso è quello delle province: costano soldi e si parla di abolirle, ma tutti ancora le vogliono. Lei che dice?
Io coltivo da tempo una mia idea: trasformare le province in enti di secondo grado non più eletti direttamente dai cittadini ma dai consigli comunali, come espressione più diretta dei comuni. A questi enti deleghiamo le funzioni di area vasta. A seconda che essi siano di ambito metropolitano, di ambito montano oppure di urbanità diffusa, diamo funzioni o compiti diversi.
Le risulta che abbia raccolto consensi?
Ho trovato ascolto anche in interlocutori del governo. Mi rendo perfettamente conto che sia un’operazione impegnativa, che però si potrebbe avviare in modo sperimentale proprio a cominciare dalle realtà metropolitane. Ovviamente questo presupporrebbe lo sganciamento dalle province delle sedi decentrate del potere centrale, come questure e prefetture.
Quali sarebbero i vantaggi della sua proposta di riforma?
Potrebbe permettere di avere un rapporto più stretto tra comuni e province, una maggior delega sui temi di area vasta che adesso molti comuni preferiscono giustamente gestire in forme consortili – e quindi creando nuovi enti intermedi – piuttosto che delegare alla provincia. Dico giustamente perché i comuni preferiscono avere un controllo diretto su quello che pagano. Come dar loro torto. Non scendo qui in ulteriori dettagli.
Il Pd è sempre stato tradizionalmente forte nelle amministrazioni locali, ora però al nord perde consenso. Perché?
Il calo di consenso locale è frutto di una sofferenza politica più generale e non viceversa. Detto questo il problema di fondo del Pd sta nel distacco crescente tra partito e società del nord. Più in generale credo che il vero problema col quale dobbiamo misurarci è che siamo percepiti dalla gente – e in parte lo siamo davvero – un partito la cui base è confinata nell’ambito di forze sociali protette e garantite dalle incertezze e dai rischi della globalizzazione. Per tutte le forze che invece sono più esposte alle forze della globalizzazione, imprenditori, operai e impiegati delle piccole imprese, non siamo un riferimento.
Che cosa si può fare?
Non c’è una ricetta da applicare, serve un lungo processo di recupero di credibilità. Come ho scritto di recente a commento della Caritas in veritate, serve un nuovo “patto di cittadinanza”, sostenuto da un nuovo patto fiscale. Il sostegno a stare nello sviluppo deve andare di pari passo con la protezione dagli effetti prodotti dalla globalizzazione. A questo una forza come il Pd non può rinunciare.
Bersani dice che il nuovo Pd deve recuperare l’unità della tradizione socialista e di quella popolare cattolica. Cosa ne pensa di questa formula? È un ritorno a Prodi o è qualcosa di nuovo?
Mi dà l’impressione di una cosa un po’ vecchia. È indubbio che ci vuole un dialogo e che il Pd non può che raccogliere forze di ispirazione cattolica, socialista e liberale, ma può più farlo secondo una logica da Cln o da compromesso storico: occorre pensare sintesi più avanzate che si misurino con i grandi temi della bioetica e della laicità dello stato. Siamo un partito che purtroppo ha perso il rapporto con le realtà più dinamiche e contraddittorie del paese. Quando la politica non si misura con la contradditorietà, difficilmente trova sintesi che guardino al futuro.