Fabrice Hadjadj è un giovane intellettuale d’origine araba, nato in Francia nel 1971, ebreo e da una decina d’anni convertitosi al cattolicesimo. Ilsussidiario.net lo ha incontrato a Rimini, alla vigilia della conferenza su “Le immagini della ragione”, e lo ha seguito nel labirinto della ragione del ‘900. Dalla crisi della ragione tecnicista e totalitaria alla riscoperta, quanto mai necessaria, dell’antica e sempre nuova meraviglia, unico antidoto al nichilismo.



 

Che cosa pensa della ragione contemporanea e dei caratteri fondamentali del modo di concepirla oggi?

Parteciperò a un incontro dal titolato stimolante, “Immagini della ragione”. “Immagini” è una bella parola, perché la ragione non conosce sé stessa direttamente ma ha bisogno innanzitutto di una sua immagine. La ragione non è mai diretta, è sempre mediata, ad esempio attraverso l’esperienza sensibile. Così io ho una certa interpretazione, una certa “immagine” della ragione. Se avessimo un accesso diretto alla ragione sarebbe semplice, potremmo dire “è questa” senza problemi, ma non è questo il caso, da qui la possibilità di interpretazioni diverse di cos’è ragione.



E qual è l’immagine di ragione dominante oggi?

È quella di una razionalità tecnicista, secondo cui il rapporto “razionale o no” è pensato come un rapporto in cui le leggi e le forze della natura vengono sequestrate per dominarla. Dunque la ragione si trova sottomessa ad un’opzione dipendente da una volontà di potenza. Giustamente nella sua conferenza qui a Rimini Rémi Brague diceva che in tal modo “l’uomo può più di quanto sappia”; effettivamente è così: la ragione non è più pensata come contemplativa, ma come ragione operativa.

A partire da quale momento si è affermata questa concezione?



A mio avviso questo è il tratto distintivo di una certa modernità, non tutta, ma di sicuro di quella cominciata nel XIX secolo. Già Marx diceva che i filosofi avevano solamente descritto il mondo, quando invece il problema era di trasformarlo. Da una parte abbiamo l’impressione che la trasformazione del mondo abbia prodotto il totalitarismo; d’altra parte, poi, oggi vediamo che una certa “frenesia tecnicista” ha destabilizzato l’equilibrio del cosmo. Oggi non si dice più che lo scopo è quello di trasformare il mondo, e ci si accorge che non siamo neppure capaci di conservarlo.

Che cosa intende dire?

C’è un pensatore di formazione marxista, il primo marito di Hannah Arendt, Günther Anders, che ha scritto “L’Obsolescenza dell’uomo”. Parla della sua esperienza comunista e dice: «credevo che il punto fosse trasformare il mondo, ma oggi non siamo neppure più sicuri se ci sarà ancora un mondo». È molto interessante notare che oggi, quando siamo in grado come mai prima di trasformare il mondo, ci poniamo il problema di conservarlo. È interessante perché si può dire che gli eccessi della ragione tecnicista, dominatrice e totalitaria, la ragione che vuole intercettare la realtà e conformarla al proprio progetto, ha portato errori durante tutto il XX secolo, e lo fa ancora oggi che ha preso coscienza di una propria finitudine radicale.

La ragione, cioè, si è scoperta finita anziché onnipotente. È un punto a favore, dunque.

 

Ma non è la ragione stessa che lo ha scelto: è questo modo di guardare la ragione che ha deciso di limitarla. Si tratta di un modo, a mio avviso, irrazionale. E lo è per diverse ragioni. Ad esempio, ho assistito qui al Meeting all’incontro con Rose Busingye sull’Aids. Si vede benissimo nel suo esempio che il problema dell’Aids in Uganda non potrà essere risolto grazie a una soluzione tecnica: il punto della questione risiede in un problema relativo al comportamento e alla morale, ma per affrontare quel problema si usa una visione tecnicista del mondo. Si crede che l’uomo sia una macchina, che può essere aggiustata mediante la giusta soluzione contro l’Aids. Ma anche quando si trovasse la formula magica, resterebbe ancora il problema che, una volta che la macchina-uomo è riparata, la si guarda e ci si chiede: “a cosa serve?” Si può avere la salute migliore del mondo, ma se poi non so che farmene?

Questa immagine della ragione che lei denuncia oggi prende anche altre forme?

Questa ragione tecnicista è collegata alla ragione consumistica, secondo la quale l’uomo calcola ogni vantaggio, come in un supermercato, in cui la ragione s’applica scegliendo ciò che ritiene migliore. Il consumismo è interessante perché non è affatto un materialismo, ma una forma di spiritualismo, perché il consumatore non si attacca agli oggetti. Consumare è prendere, utilizzare e gettare, distruggere nel consumo. Non siamo in una logica patrimoniale, in cui si riceve un oggetto, ci si attacca, e via dicendo. Nient’affatto, nel consumismo si prende e si distrugge. Nel consumismo vediamo all’opera questa ragione tecnicista, pianificatrice, intenta al proprio progetto, perché quello che accade, quando si è consumatori, è che si tiene il mondo a una certa distanza, sotto di noi. Prendendo le cose e distruggendole abbiamo l’impressione di essere veramente sovrani, su cose ridotte ormai solo merce. È nient’altro che l’idea di volontà di potenza, che afferma la distanza tra sé e il mondo per poterlo manipolare.

Non è dunque nient’altro che l’arbitrio del più forte…

Una certa visione tecnicista della ragione si ripercuote di sicuro sulla concezione che abbiamo della verità. Così nella visione tecnicista cominciamo a credere che la verità sia qualcosa che si raggiunge attraverso una procedura. Alcuni filosofi hanno studiato il modo migliore di regolare una discussione, e allora inizieremo una discussione senza fine, ma ben regolata da una procedura, e si resterà dentro la tecnica, perché c’è il timore che se qualcuno arriva e osa dire che la ragione è una apertura alla verità, è un pericolo, fa paura e si grida al totalitarismo dietro l’angolo. Senza dubbio questa deriva consumistica e tecnicista è una reazione a quella precedente deriva totalitaria avuta dalla stessa ragione tecnicista, una reazione al marxismo, al nazismo, dove prima la ragione doveva trasformare il mondo, rendere il mondo perfetto, e abbiamo visto tutti a cosa ha condotto. Di conseguenza ci si è detti che era meglio opporsi a tutte le idee assolute, che parlano della verità, e che tutto è mercanzia, negoziabile (è una parola importantissima negozio, perché è la negazione dell’otium, del loisir, dell’attività del saggio, dello shabbath).

Non c’è discontinuità tra questa ragione consumista e quella totalitaria del passato?

Questa ragione consumista ha lo stesso progetto della ragione totalitaria, continua a pensare il mondo come un tutto solamente materiale alla mercé dei miei capricci. Ciò detto, il punto è capire che cos’è la ragione, dov’è che essa si manifesta più profondamente. Il luogo più proprio della ragione è il calcolo, come la parola negotium sottintende, è la trasformazione e il dominio del mondo, o in altre cose. Talvolta razionale viene associato a dominare. “È razionale” significa “è dominato”. Ma dove si manifesta veramente la ragione? Per uscire da queste immagini false, occorre precisare che la ragione si manifesta innanzitutto in ciò che riguarda l’uomo. Ragione riguarda l’uomo, l’uomo è quell’animale che ha il logos, e allora in questo caso occorre parlare della ragione parlando dell’umano. Il razionale è anche ciò che è umano. Perché l’uomo non è un calcolatore. Ridurre la ragione alla dimensione calcolatrice e tecnicista significa parlare di una macchina, sicuramente, ma non certo parlare dell’uomo.

Nell’architettura è evidente. Sono stato in un ospedale anni ‘30, in Italia, era pulito, efficiente, con i muri e il pavimento abbelliti da leggeri disegni. In un nuovo ospedale ho visto solo muri in plastica verdi. Funzionali, probabilmente come gli altri, ma così funzionali da esser asettici, vuoti, disumani.

Ha ragione. Nel suo esempio è ancora peggio, perché non si tratta di un’architettura generica, ma di luogo in cui dovrebbe dominare la logica della cura. La ragione trasformatrice, nell’esempio dell’ospedale da lei fatto, è ancora presente, questa volta sotto forma di un falso altruismo. Essa dice «bisogna che aiuti queste persone», ma deve aiutarlo secondo il suo progetto, o secondo il progetto anche dell’altro? Così, l’unico problema è eliminare il dolore, ma la ragione trasformatrice dimentica di guardare l’altro, il paziente, lo elimina. Se non si è meravigliati mai dall’altro, dalla sua unicità, il problema della cura diventa solo una questione di problemi da risolvere, come se si stesse riparando un’automobile. Quando però cominciamo a ragionare di aggiustare una macchina, in quel momento abbiamo perso l’uomo.

E ragione diventa sinonimo di disumano.

La ragione caratterizza l’uomo. L’uomo ride, ad esempio. La ragione è capace di capire questo riso. La vera razionalità è capace di capire il ridicolo. È un aspetto della ragione il comico, e la tragedia e qualsiasi espressione dell’esistenza umana, che sono razionali. Parlerò di questo oggi al Meeting. La ragione si trova più, oggi, di fronte alla domanda “come funziona?” che non nella più giusta domanda “come sta andando?”, fino ad arrivare a riconoscere che c’è qualcosa che la sorpassa. La migliore filosofia ha sempre sostenuto che il punto più elevato, più fresco e più compiuto della ragione è il meravigliarsi. Da Aristotele in poi in tanti ci hanno ricordato questa verità. Questa meraviglia ha spinto gli uomini alla speculazione filosofica. L’uomo prima è meravigliato, poi si muove.

Molti dicono che è migliore una società dominata dalla ragione tecnica, perché garantisce meglio un approccio libero ai problemi, e la libertà tra le persone.

 

La ragione tecnica è molto efficace. Lei usa la parola libertà, però più della parola libertà userei la parola vita, che è più efficace. In un mondo meccanico, non c’è più vita. La prima meraviglia è la vita. Perché? Perché la vita non sono stato in grado di darmela da me. Mi è stata data, è sempre ricevuta da un ordine che mi sorpassa. E questa cosa, la vita, è meravigliosa, e passa di gran lunga l’intelligenza dei migliori ingegneri. La vita, la vita in sé, è già meravigliosa. Che meraviglia! C’è la vita!

E il male?

Le dirò di più: Non si può dire che una cosa è orribile e quindi la vita è malvagia, perché se dico che una cose è orribile, perché sono stato innanzitutto colpito da qualcosa di meraviglioso. Anche la ragione che s’indigna e che si chiede “ma questa vita vale la pena di essere vissuta” in realtà ha già, pur senza rendersene conto, riconosciuto la meraviglia della vita. Se non abbiamo innanzitutto riconosciuto la meraviglia dell’essere in sé, cosa farò quando agirò? Tutte le mie trasformazioni, la mia razionalità, e su questo punto mi piacerebbe concludere l’intervista, andranno contro l’essere. Occorre che cominci l’azione con un atto di gratitudine, per agire in un modo ordinato. Se non c’è questa gratitudine, io non potrò pormi nella stessa direzione dell’essere.