«Siamo una società evoluta ma terzomondista che pensa che il problema della povertà e della carenza alimentare non riguardi lei, ma gli altri». Non usa mezzi termini, il ministro dell’Agricoltura Luca Zaia, anticipando alcuni punti della riflessione di oggi su “Certezza e sicurezza alimentare: le sfide del nuovo millennio”.



Ministro, quali sono i temi che metterà al centro della sua riflessione sul tema della certezza e della sicurezza alimentare?

La prima preoccupazione di chi governa non può non essere per la persona che si sveglia al mattino e che non ha nulla da mangiare. Ma abbiamo smarrito la giusta impostazione del problema: siamo una società evoluta ma terzomondista che pensa che il problema della povertà e della carenza alimentare non riguardi lei ma gli altri: l’Africa e i paesi in via di sviluppo. Ma non è così. I poveri sono tra noi: in Italia il 14,7% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Dunque il problema del cibo è a doppio binario. Il primo è quello di trovarlo.



E il secondo?

Il secondo è che quando hai trovato il cibo, devi essere sicuro che non ti ammazzi. Bisogna cioè essere sicuri di mangiare quello sano e buono. Occorre ripensare sia alla necessità di una migliore razionalizzazione della produzione mondiale, sia ad una riqualificazione identitaria.

Cosa bisogna fare per aiutare chi non ha niente?

Innanzitutto bisogna mettere in questione la logica degli aiuti per come l’abbiamo troppo spesso conosciuta fino ad ora. Dal dopoguerra ad oggi l’Africa ha avuto qualcosa come 60 miliardi di dollari di aiuti e il grande risultato sono stati corruzione, deresponsabilizzazione e mancanza di una classe dirigente. Ma soprattutto, intere popolazioni che ormai si sono assuefatte ai container che arrivano a distribuire il cibo. A questa politica va contrapposta quella assai più efficace dell’aiuto capillare che fa leva sulla responsabilità: il microcredito, per esempio. E poi l’educazione: far capire che ciascuno di noi, anche se in modo infinitesimale, nell’ultimo più sperduto lembo del pianeta è artefice del proprio futuro.



E dal lato pratico?

 

Bisogna intervenire non scaricando cibo e derrate alimentari, ma creando nuove, diverse opportunità di vita e questo significa microcredito, far nascere nuove aziende agricole. Non si possono continuare a trattare l’Africa e molti paesi in via di sviluppo come mera terra di conquista. È finita l’epoca dei colonizzatori, anche se la Cina si comporta esattamente in questo modo, andando a comprare terreni in Brasile piuttosto che in Africa. E poi fare in modo di essere dalla parte della “multinazionale” giusta, che è quella dei contadini. La riscossa di questi paesi passa necessariamente attraverso il rilancio di un’agricoltura vincente.

Lei si è sforzato di mettere agricoltura al centro dell’agenda di governo.

Ora di agricoltura si parla in Consiglio dei ministri e si vedono i provvedimenti. Ci sono altre priorità naturalmente e lo sappiamo tutti. Da parte nostra abbiamo puntato sullo sviluppo di una coscienza del ruolo identitario dell’agricoltura stessa. Dove c’è un agricoltore non c’è solo un presidio ambientale sul territorio, ma una possibilità di futuro per una comunità: se è povera, ha una chance in più di vita, se è ricca può produrre sicurezza alimentare intesa come qualità e dunque come salute.

Cosa si attende da una realtà  non profit come la Fondazione Banco Alimentare?

Penso e spero che il Banco Alimentare possa diventare qualcosa di organico e sempre più riconosciuto a livello istituzionale. Il mondo del non profit ha un ruolo fondamentale e la sua azione è sempre più apprezzata e utile, ma non possiamo limitarci a questo. Prevale purtroppo ancora oggi una cultura per la quale troppe iniziative del terzo settore sono ancora pensate come un momento ricreativo o l’occasione per dare l’obolo a qualcuno. Il mio auspicio è che il Banco Alimentare diventi parte integrante dell’attività di governo.

Lei ha proposto che i quarantenni tornino a fare agricoltura. Ma è realistico?

Con quel che costa ora far partire un’attività agricola, no. Ma se diamo in affitto i terreni dello Stato con la garanzia di un preciso progetto, e con l’opzione d’acquisto al termine del contratto, le condizioni cambiano. L’occupazione e il dato economico è sicuramente eccezionale, perché potremmo dare lavoro a 5 mila persone. In questo progetto però c’è anche l’idea di una difesa identitaria, perché in Italia abbiamo 4500 prodotti tipici che costituiscono il cuore del Made in Italy. Puntare sul secondario e terziario avanzato ma avere un’economia inesistente è stata le scelta dell’Europa di dieci quindici anni fa ma si è rivelata disastrosa e ora l’Europa stessa tenta di correre ai ripari.