Non è con emozione, che mi accingo oggi a conclusione del Meeting a parlare di don Giussani al “suo” popolo, in occasione della pubblicazione di una nuova tappa dei suoi tanti inediti che ancora attendono di essere tradotti da registrazioni a opere a stampa. È la riconoscenza, a muovermi. E se non sarò all’altezza, confido nella comprensione innanzitutto sua, di don Gius. Perché questa nuova tappa ci ripropone lo spirito e la dedizione più alti della sua missione di educatore dei giovani, la trascrizione di una nuova serie delle Équipe con i dirigenti e gli studenti Clu di tutta Italia, negli anni 1984 e ’85. Per me che da laico inveterato a un certo punto nella vita è iniziato il cammino verso Cristo, il don Gius che più scava nell’anima è proprio quello che restituisce la forma diretta e sincopata della maieutica che voleva e sapeva esercitare a partire dai rapporti e dalle “domande” dei giovani universitari. Partendo dalle loro esperienze, dai loro limiti, dalle loro ignoranze, dalla loro reattività. Passo dopo passo, richiamo dopo richiamo delle Scritture come dei tanti filosofi e poeti: attraverso un esercizio ferreo di logica discorsiva e dimostrativa. “Qui e ora” – s’intitola così il volume – si imprime nella mia testa e nel mio cuore come se fossi stato presente laddove non ero, come se avessi potuto misurare sulla mia pelle la carezza di quel singolare padre e fratello che per voi tutti che lo avete conosciuto, e per voi che ne seguite il magistero anche se non lo avete conosciuto, è ancora don Gius. E sempre sarà.



Consentitemi una nota personale. Tra poco parlerò a ruota libera, e avrò più agevolmente il modo di richiamare in maniera sistematica ciò che rende a mio modesto giudizio “Qui e ora” un nuovo passaggio obbligato per misurare la vita di ciascuno con l’urgente quotidianità della catena “amare noi stessi-amare gli altri” in cui si esalta – Fatto storico nei fatti concreti della vita di ogni essere umano – il senso della morte e resurrezione di Colui che è tra noi. Qui voglio solo dare qualche accenno. Parto da uno stupore del tutto mio. Mi è recentemente capitato di parlare di don Gius col fratello di mio madre, nunzio apostolico che dopo anni di servizio per il mondo da anni opera oggi nella Segreteria di Stato Vaticana. Quando ero giovane e ribelle alla fede di mia madre – mia madre! di cui mi parlò a sorpresa don Gius lasciandomi senza parole, dicendomi che si chiamava come la sua e che alla sua fede dovevo un riesame di me, nel mio unico incontro con lui! – proprio il fratello di mia madre, don Luigi per noi nipoti, finiva ai miei occhi spesso per rappresentare il peso intollerabile delle contraddizioni della Chiesa istituzione rispetto alle sfide della complessità e della modernità.



Ora che guardo le cose assai diversamente, ho chiesto a don Luigi che cosa avesse rappresentato, per lui, don Gius. La risposta ancora una volta mi ha confermato la bontà del mio rimettermi in cammino guardando in fondo al cuore, al mio come a quello di tutti viventi. “È stato un profeta”, mi ha detto lasciandomi senza parole. “E sai che non userei mai questa definizione con leggerezza, per l’attenzione e l’affezione che porto alla Chiesa e alla complessità della sua storia, e al dolce ma temibile peso dei suoi doveri”, ha aggiunto. “Perché un profeta, allora?”, ho chiesto. “Perché prima e dopo il Concilio ha saputo indicarci ‘dal basso’ il dovere di reincarnarci nel vissuto smarrito di un popolo, il nostro popolo, agli occhi del quale le svolte liturgiche conciliari da sole – che tanto esaltavano noi ‘addetti ai lavori’ – non avrebbero mai potuto restituire l’urgenza dell’unico Fatto senza del quale ogni segno è privo di vita: Cristo”.



Ho sussultato, a quelle parole. Ho pensato a quel che potete leggere a pagina 364, quando don Gius si esalta rivelando agli studenti un passo che lo ha entusiasmato, e che aveva adocchiato per il Volantone della Pasqua successiva. “È un brano di ‘Introduzione al Cristianesimo’ di Ratzinger, che dopo il Papa è certamente la più grande benedizione di Dio per la Chiesa di oggi”. Queste le parole di don Giussani. “La più grande benedizione di Dio per la Chiesa di oggi”, Ratzinger, dopo il Papa che allora era Giovanni Paolo II. Parole di 25 anni fa.

Profeta. Non sta a me dirlo, per carità. Ma, letto il libro, penso che mio zio don Luigi abbia ragione. Tra poche ore proverò a dirvi perché. Ho passato ormai parecchi anni a interrogarmi se l’attaccamento alla Chiesa come patria terrena – così tipica del cattolicesimo che non mi convinceva – non fosse quel filo infinitamente sottile a proposito del quale san Giovanni della Croce dice che, finché non sia stato rotto, impedisce all’uccello di spiccare il volo nella perfezione con la stessa efficacia di una catena di metallo. Non è così. Attraverso la continua “domanda” di don Gius ai suoi giovani – domanda che per don Gius equivale a “preghiera” – ho capito e appreso una terna che esercita effetti fattuali di cambiamento addirittura “micidiali”, se mi passate il termine: il sentimento di sé come gratitudine; l’autocoscienza come appartenenza; il rapporto con qualunque cosa come Bene. No. Quando Cristo consegna a tutti, come suprema virtù, la prescrizione di imitare la perfezione del Padre celeste, non ci indica un sistema di regole deontologiche o un massimario eticista, e nemmeno un impossibile modello perfezionista, tale da farci sprofondare nell’incommensurabile distanza tra la perfezione sua e la nostra natura di peccatori, distanza abissale che tanto opprime ed esalta il Protestantesimo. No. Non è più tempo di “ridiventare” ogni giorno cristiani e cattolici solo dal fondo di una cella di monastero – per quanto anche questo abbia perfettamente ancora senso. Don Gius ci insegna che da noi si attende una santità nuova. Da ciascuno di noi, alle prese con la propria vita, amore, famiglia, professione, studio.

Dio ci chiede e si attende un libero sforzo d’invenzione. Una santità quotidiana è un’invenzione dirompente. Chateubriand oppose il genio del cristianesimo all’aridità livellatrice di teste della Rivoluzione francese. Francesco d’Assisi al merito della roba che costruiva le gerarchie feudali. Noi possiamo e dobbiamo provarci, rispetto a un mondo che ha creduto di fare del solo uomo il metro di tutto, per scoprire da ciò che nessun metro valeva più nulla rispetto agli altri. Santità grata e felice, consapevole che il santo non è colui che mai cade, ma chi ogni volta tenta di rialzarsi. Questo proverò a dire tra poche ore. Finché il mio lume era l’ottimo Kant, la bellezza era una finalità che non contiene alcun altro fine. Con don Gius, la bellezza in me suscita affezione per un fine di appartenenza a un comune destino. Quello di amare il reale, in memoria e grazie a Colui che si è sacrificato perché noi comprendessimo di che cosa siamo liberamente capaci.